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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Boom di iscritti a matematica!

Questo post sarà probabilmente poco interessante per la maggior parte dei frequentatori di Internet, ma vorrei raccogliere alcune riflessioni legate ad un argomento che, nel mio àmbito lavorativo, sta facendo discutere.

Partiamo dall'articolo della collega Sandra Lucente (UniBA), apparso sull'edizione locale del quotidiano La Repubblica pochi giorni fa. Si parla del tasso di crescita delle immatricolazioni ai corsi di laurea in matematica: il contesto è pugliese, ma la validità è alquanto più generale. Anche nel mio ateneo il numero assoluto degli immatricolati ha fatto registrare cifre di tutto riguardo, soprattutto se confrontate con le medie degli anni un po' più remoti. Per fissare le idee, diciamo che abbiamo circa centocinquanta matricole, contro le cinquanta del mio primo anno di studi, il 1993-1994. A volte sfioriamo il numero di duecento, tra alti e bassi.

Qual è il problema, vi chiederete? In effetti non so se ci sia un reale problema, ma sappiamo che siamo tutti specializzati nell'arte di crearne ovunque. Soprattutto, bisogna dire che gli addetti ai lavori (noi docenti universitari tra i primi) si chiedono perché tutto ciò accada. Riflettiamo.

Quando ero un giovane liceale, dire che volevi iscriverti alla laurea in matematica significava vantarti del tuo fanatismo. O, in seconda battuta, annunciare che aspiravi ad una vita tra i banchi di scuola, a raccontare come semplificare le frazioni. Ci sono stati anni in cui la laurea in matematica garantiva poco più di una professione educativa, anche perché ben pochi sapevano che esiste una fervente attività di ricerca pura ed applicata.

A diciannove anni, ci immatricolavamo a matematica soprattutto perché avevamo una notevole passione: chi puntava al successo, sceglieva in quel periodo ingegneria. Gli stessi professori di liceo ammonivano che il corso di studi in matematica era molto duro, e alquanto diverso dalla vaga idea di fare centinaia di esercizi a ripetizione sul quaderno a quadretti. Il risultato erano aule dove i docenti spiegavano a un paio di dozzine di studenti. Ho seguito, all'ultimo anno, un corso con tre studenti e la professoressa in cattedra!

Insomma, lo studio della matematica era elitario: pochi e molto selezionati. Risparmio i triti aneddoti sui professori di chiara fama, che scagliavano in cortile il libretto delle matricole meno brillanti: stupidate un po' vigliacche, a mio parere. Però il succo era quello. È ancora così, nel 2020?

La risposta, come si legge nell'articolo della prof. Lucente, è evidentemente negativa. Siamo tutti meno ingenui e disinformati, a partire dai liceali. Anni di crisi economica e di disillusione verso un futuro radioso hanno portato a fare scelte pragmatiche: si consultano le statistiche di impiego nei primi anni dopo la laurea, e ci si immatricola dove conviene. 
Per svariate ragioni, i laureati in matematica sembrano avere ottime opportunità lavorative, anche in settori ben lontani dal mondo della scuola. Società di consulenza, banche, assicurazioni, centri di ricerca nella cibernetica e nell'informatica: sono solo alcuni degli sbocchi che possono diventare attraenti per un laureato in matematica.

Questo mutamento sociale ha prodotto inevitabilmente una frattura generazionale. È una legge statistica di buon senso quella che stabilisce un legame tra eccellenza e numerosità: la passione per una disciplina non sboccia a comando, dopo aver sfogliato una statistica. Se noi docenti potevamo mantenere un livello di insegnamento decisamente alto e selettivo con cinquanta studenti motivati, oggi dobbiamo cambiare prospettiva: dei centocinquanta ragazzi seduti nell'aula di Algebra Lineare, una percentuale significativa sarà di livello medio.

Ho fatto un trascurabile esperimento con i miei allievi di Analisi Matematica 1: ho chiesto di farmi sapere, ovviamente in modo confidenziale, quali siano le cause del forte abbandono nel passaggio dal primo al secondo anno. Ho avuto poche risposte, perché a quell'età siamo stati tutti timidi e impauriti dai nostri professori. Tuttavia l'informazione che quei pochi hanno voluto comunicarmi è che molte matricole scoprono che avevano capito tutta un'altra cosa. Non pensavano di dover studiare decine di teoremi e decine di dimostrazioni, riflettendo sulla necessità di ogni ipotesi e sulle idee di ogni passagio logico.
Noi, poche matricole del 1993, eravamo altrettanto inconsapevoli. Però eravamo così "fanatici" da adattarci a questo disorientamento, fino a metabolizzarlo. C'era chi mollava, ma proporzionalmente erano pochi. Oggi sono tanti, troppi. Ci sono colpevoli?

La domanda è vaga. Ma vorrei azzardare alcune considerazioni.
  • Si dice che ogni docente insegni come ha imparato. Slogan rozzo ma parzialmente vero. Noi abbiamo studiato in un contesto elitario, e ci sembra sbagliato che la laurea in matematica sia stata contagiata dallo stesso virus che affligge storicamente la laurea in giurisprudenza o in medicina. Noi eravamo duramente selezionati: perché non possiamo selezionare duramente? C'è un ostacolo mentale legato all'inerzia di voler perpetuare il "tempo che fu". Un argomento è che tanti studenti medi soffocano la genialità dei pochi. Secondo me è falso: l'unica differenza è che trent'anni fa quelli davvero bravi si mettevano in mostra subito. Adesso devono aspettare almeno il terzo anno, a causa del rumore di fondo causato dalla folla nelle sessioni d'esame. Però gli studenti brillanti ci sono, e hanno l'occasione di dimostrarlo.
  • Le statistiche che descrivono i successi dei laureati in matematica sono sempre statistiche sul passato. Il rischio è che piacesse una laurea selettiva, mentre una laurea di massa potrebbe svalutarsi rapidamente. Bisogna sempre cercare di restare in equilibrio tra la tentazione di estremizzare verso l'alto e verso il basso. Dare il 18 politico non aiuterà i corsi di laurea in matematica, e nemmeno i laureati. Al contrario, espellere le matricole che non dimostrano doti fuori dal comune danneggia materialmente gli atenei.  
  • Per garantire una didattica efficace a centinaia di studenti, bisogna avere mezzi e persone. L'idea che si possa avere la botte piena e la moglie ubriaca, magari a costo zero, ci porterà verso il baratro. Se un docente spiega argomenti difficili a cinquanta studenti, può farlo in maniera ottimale; se ha davanti duecento studenti, lo stesso docente dovrà soprattutto evitare che quelli delle ultime file si perdano nella confortante sensazione di essere un puntino invisibile nella folla. 
  • Per i dipartimenti di matematica, questi sono problemi abbastanza nuovi. Ma altri dipartimenti convivono con questi numeri di studenti da sempre. Chiediamoci come facciano, prima di rimpiangere il clima da monastero che aleggiava nelle nostre aule. Sono studenti, non barbari invasori.

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