In attesa della pubblicazione, prevista per il prossimo mese di novembre, del nuovo libro di
Mauro Corona, ho deciso di saltare la sua produzione più antica e prendere in mano questo testo del 2011. Maturando qualche esperienza da lettore, mi sono accorto che raramente serve leggere un autore in stretto ordine cronologico. Anzi, il salto nel tempo è un privilegio del lettore che viene dopo, una specie di onniscienza e onnipotenza letteraria che regala qualche soddisfazione.
Raccontare la trama di questo libro, edito come al solito da Mondadori, non è facile: c'è un uomo, senza nome, del quale impariamo la storia attraverso la voce in terza persona di un narratore fuori campo. Le vicende dell'uomo si sovrappongono in modo impressionante alla biografia di Corona stesso: il padre violento e ubriaco, la madre fuggita lontano, i fratelli accolti dai vecchi della famiglia e cresciuti in povertà tra i monti del Friuli occidentale. E poi il collegio dei preti, il lavoro nelle cave di pietra, le prime sbronze e la naja. Ma, diversamente dagli altri libri autobiografici dello scrittore errano, qui c'è la figura misteriosa di una donna. Una donna lontana, legata all'uomo da un rapporto profondo e mai realmente svelato.
Verso la fine, la storia trascende la realtà, e diventa (per forza) finzione. A mio parere, sono queste le pagine più belle dell'intero libro. L'uomo si fa eremita, acquista e ristruttura una baita dispersa fra i boschi. A sessant'anni, ha deciso di uscire dal consesso umano che ormai lo disgusta. Si isola, scende in paese solo per procurarsi l'essenziale, e per il resto del tempo scolpisce il legno e scrive.
Nell'intercapedine fra due muri della baita, l'uomo ha scoperto tre mummie di donne, morte almeno centocinquant'anni prima, e le ha lasciate lì. Misteriosi testimoni di eventi tragici e violenti, vengono la notte ad infestare i suoi sogni. Lui ne trascrive le storie sui suoi quaderni, e il tempo trascorre. Quando la malattia gli darà il preavviso della fine, l'uomo si lascerà morire in una foiba della
Cuna dei morti che piangono, vegliato da una cerva fedele più di qualunque essere umano.
Come sasso nella corrente è un prodotto affascinante dell'opera di Mauro Corona, a tratti inquietante. L'idea della scomparsa dal mondo civile (civile?) è un
topos piuttosto frequente e abusato. Ho letto recensioni e commenti piuttosto negativi di questo romanzo, e non è difficile capire perché. Il richiamo della natura, dei monti e degli animali selvatici non appartiene a chi sia cresciuto nel traffico di una grande città. Viene da chiedersi che cosa ci sia, di tanto meraviglioso, nella vita quasi primitiva e dura dei montanari. Al massimo, i cittadini si divertono ad andare fra le montagne dove
nevica firmato, per riprendere un celebre detto di Corona.
Forse c'è una dose di manierismo nel disprezzo dell'uomo (alias Corona) per se stesso e per la propria vita che per certi versi suona eccessivo. Ma penso che questo personaggio un po' eccentrico, spesso scontroso e talvolta di pessimo esempio, abbia ancora qualcosa da insegnare a tutti quelli che vorranno ascoltarlo.
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