Andate in montagna? Perché vi piace? Se la prima immagine che associate al sostantivo montagna è quella di un ambiente incontaminato e antico,
questo libro vi sorprenderà. Non fatevi suggestionare dalle prima pagine, colme di tragici fatti di cronaca: la congerie di suicidi, omicidi, stragi della follia sono uno strumento (un po' facile) per vendere qualche copia in più. La parte davvero interessante viene dopo.
Sia che andiate a sciare nelle località più famose, sia che amiate invece le camminate estive tra i rifugi, la lettura di questo testo potrebbe modificare radicalmente il vostro approccio alla montagna. Il fatto è che la montagna, ci suggerisce l'autore, è solo un'invenzione (in senso sociologico). Tutto ciò che i cosiddetti montanari allestiscono per voi non esiste, forse non è mai davvero esistito. Le sagre, le tradizioni, i costumi, la vita di una volta... tutto finto, serve solo ad appagare il vostro desiderio di immergervi nella natura.
Le ricerche dell'autore si sono concentrate nelle valli trentine, che evidentemente sono anche le più popolari proprio per la cura con cui gli abitanti imbellettano i piccoli borghi colorati e lindi. Dunque alcune delle tematiche affrontate potrebbero essere tipiche di poche valli, e questo avviso deve essere dato al lettore. Tuttavia gli argomenti appaiono sufficientemente universali da adattarsi a tutto l'arco alpino.
Fatevi una semplice domanda: che cosa fanno i montanari quando voi tornate in città? Potremmo dire, esagerando: ma i montanari esistono realmente quando i milanesi vanno via? La risposta di questo libro è, forse sorprendentemente o forse no, negativa. Ciò che noi turisti viviamo nei giorni di ferie fra le vette smette di esistere alla fine dell'estate, rivive con la stagione sciistica e torna in letargo con la primavera. Fatta eccezione per queste parentesi turistiche, la montagna è triste: poche anime tirano sera senza uscire di casa, imprigionate dal quel rispèt che mette alla gogna ogni desiderio di evasione, di divertimento, perfino di cambiamento.
Chi abita in montagna tutto l'anno conosce la durezza del giudizio sociale, la difficoltà o addirittura l'impossibilità di uscire dal recinto in cui si nasce. Ogni paesano resta il figlio del barbiere, la moglie del macellaio, la nipote del muratore. Cambiare è possibile solo emigrando altrove, abbandonando forse per sempre la vita precedente. Sicuramente alcuni vivono questo ambiente chiuso come una protezione, si sentono parte di una comunità. Ma, ci avverte l'autore, sono ormai la minoranza: i giovani si sentono prigionieri, e l'evasione passa per la bottiglia o, nei casi peggiori, per il tentativo di suicidio.
Nella mia esperienza, del tutto trascurabile, ho avvertito il senso di finzione di alcuni luoghi delle Dolomiti. La tesi di questo libro è che la realtà montana non è quella di Cortina o dell'impeccabile Alto Adige: è piuttosto quella delle sperdute valli aostane dove l'unico negozio apre due ore al giorno nei periodi di turismo, mentre i paesi sono popolati solo dai fantasmi. Oppure è la realtà di certe valli friulane sospese fra il ricordo delle tragedie passate e la tragedia del tempo presente, in cui l'unica speranza è nelle città di pianura. I personaggi dei racconti di Mauro Corona non sono invenzione: ubriachi, depressi, violenti, frustrati. Pronti a muovere le mani e ad imbracciare la doppietta senza tanti ragionamenti.
Da un punto di vista linguistico, il libro di Arnoldi presenta qualche pecca, i concetti sono ripetuti e talvolta ripetitivi. Ma la sostanza resta, e ci apre gli occhi sul piccolo grande imbroglio della montagna idilliaca.
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