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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

La classe di Agosto

Agosto non è l'omonimo mese, e mi verrebbe da aggiungere: purtroppo. Agosto è (solo?) un cognome, per quanto insolito. State probabilmente immaginando che questa non diventerà una recensione entusiastica dell'ennesimo libro che ho deciso di leggere.

Dunque, vediamo: si parla di scuola, nell'estremo Nord-Est. Siamo a Gorizia, anno scolastico 2010-2011. Marco Vasta insegna materie letterarie in un Istituto Superiore un po' problematico. Anche lui, il prof. Vasta, è abbastanza problematico. Lo sono tutti, in effetti. Nello spazio di un centinaio di pagine che scorrono velocissime (nonostante una geometria di stampa a righe troppo lunghe), vediamo scorrere un anno di scuola, da settembre a giugno. Agosto, invece, siede tra i banchi.

Marco Vasta, come accennato, è un professore piuttosto carismatico, riflessivo e fondamentalmente amato dai suoi allievi. Dopo un divorzio doloroso, a cinquantacinque anni vive del suo lavoro, intensamente ma con qualche stanco automatismo. Attorno a lui sfilano questi quindicenni alle prese con le asperità della vita "adulta": disagio sociale, tragedie famigliari, desiderio di ribellione, bisogno di trovare il proprio posto nel mondo.

La letteratura sulla scuola, si sa, è esposta all'effetto del patetico. Chiunque abbia frequentato una scuola, conserva ricordi belli e brutti; ma difficilmente è possibile resistere alla struggente nostalgia di una stagione che dura poco e svanisce per sempre. L'adolescenza è infinitesima rispetto al resto della nostra vita, eppure la marchia a fuoco. Quei cinque anni (oggi dilatati anche troppo) fra i quattordici e i diciannove corrispondono grosso modo al tempo necessario per diplomarsi. Le ore in classe la mattina, e quelle sui libri nel pomeriggio, comprimono tutto il resto secondo una ben nota legge di conservazione fisica: diminuendo il volume, aumenta la pressione.

Nel libro di Adriano Ossola, anch'egli insegnante di Lettere, questa pressione è il tema portante: ogni personaggio è schiacciato dalla sua pressione, fino a strabuzzare - metaforicamente - gli occhi. Ma proprio per questo, dopo aver chiuso il libro con una certa emozione, si insinua la fatale domanda: che cosa ci insegna questo libro? Perché ci serve? Aggiunge qualcosa di nuovo?

Ecco, la mia risposta da lettore non professionista è che manca l'originalità. Il professore è tormentato, sentimentalmente deluso, maltrattato dalla ex-moglie, incapace di dialogare con i figli ormai grandi. Ma che, davero? Però è tanto bravo ad ascoltare i suoi ragazzi, e si limita perfino a "coriandoli" di lezione quando l'atmosfera è troppo tesa, cioè quasi sempre. La scuola serve a formare, e alla fine, tra un coriandolo e l'altro, ognuno avrà la sua forma. Vuota però, dobbiamo dedurre.

Gli allievi, da parte loro, sono abbastanza incredibili: curiosi, ribelli, pronti ad emozionarsi per un racconto contemporaneo e una pacca sulla spalla. Nella mia esperienza, gli studenti degli anni Dieci soffrono proprio del male opposto: apatia, isolamento, bisogno di velocità superficiale. Quelli di Ossola sembrano ragazzi del 1970, fondamentalmente assetati di socializzazione.
Perfino la tragedia che raggiunge il climax del racconto ha il sapore di decenni con la zampa di elefante e di gonne a fiori, senza ovviamente negare che alcuni vizi appartengono ad ogni epoca.

In conclusione, non vorrei sembrare eccessivamente negativo. Il lungo racconto di Adriano Ossola, seppur scritto senza grandi guizzi di stile e di trama, è comunque una lettura capace di dare emozioni. Forse un po' facili, ed è qui la maggior delusione per chi legge. A volte vorremmo una scuola diversa, anche a costo di rinunciare ad alcuni temi di sicuro effetto.

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