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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

L'analisi matematica nella laurea triennale: a che punto siamo?

 


L'insegnamento dell'analisi matematica ha innegabilmente avuto un ruolo importante, forse perfino dominante, nei programmi univrsitari della seconda metà del XX secolo. Fino alla prima decade del 2000, i piani di studio della laurea (a ciclo unico prima, triennale in seguito) in matematica proponevano un insegnamento-monstre di algebra astratta, uno di geometria/algebra lineare, uno di fisica classica, e uno di analisi matematica.
Per questioni di politica accademica, poi, le cattedre e le classi di concorso che oggi chiamiamo MAT/05 erano destinate all'insegnamento della matematica generale, cioè di quei corsi esterni presso le lauree scientifiche più diverse: chimica, biologia, architettura, ingegneria. 

Chi scrive ha cominciato gli studi universitari nell'ottobre del 1993, nell'allora unico ateneo statale di Milano. La presenza di una scuola locale di Analisi Armonica introduceva l'uso di manuali e testi che altre sedi non consideravano: i Principi di Analisi Matematica di Walter Rudin, ad esempio, ma potremmo aggiungere An introduction to classical real analysis di Karl Stromberg, o l'Analisi Matematica di Carla Maderna e Maurizio Soardi (apertamente ispirata all'approccio di Rudin).

Una caratteristica saliente di questa scuola era l'introduzione ex abrupto, anche a discapito della costruzione degli insiemi numerici $\mathbb{N}$, $\mathbb{Q}$ e $\mathbb{R}$, della topologia. Questa scelta era condivisa anche da Giovanni Prodi, che a Pisa si è lungamente interessato di questioni didattiche: il suo celebre Analisi Matematica, tuttora ristampato, arrivava a dedicare più della metà delle pagine alla teoria degli spazi topologici e metrici. 

Va detto che questa visione ha dei padri illustri negli esponenti del Bourbakismo. Il progetto di rifondazione dell'intera matematica che Bourbaki ha proposto nei molti volumi a firma collettiva, mostrava evidentemente l'ingresso dell'analisi matematica a fianco della topologia, e ben dopo l'algebra astratta. Certamente non era questo lo sviluppo storico della disciplina, che possiamo far risalire a Cauchy e alle sue leçons.

A distanza di quasi trent'anni dal mio primo incontro con l'insegnamento universitario dell'analisi, è evidente che una profonda rivoluzione ha attraversato i piani di studio delle lauree in matematica. Discipline che restavano sullo sfondo (penso alla teoria della probabilità, che si studiava solo a scelta, nel quarto anno di studi) si sono prese prepotentemente più spazio. Ma anche il calcolo numerico, certamente sull'onda delle applicazioni industriali e non solo, ha preteso ore ed esami fin dal primo anno.

Parimenti la topologia generale (quella algebrica o differenziale hanno meno legami con l'analisi elementare) si è spostata dal secondo anno al primo. Non in parallelo - come forse sarebbe intelligente fare - ma almeno a brevissima distanza dal primo corso di analisi. Tutto ciò ha lentamente ridimensionato il gigantismo didattico degli analisti, obbligando ad un ripensamento delle idee e dei contenuti.

Nella mia testa è chiaro che le funzioni continue sono enti naturalmente topologici: il teorema degli zeri è in effetti un teorema di topologia, così come quello di Weierstrass sull'esistenza dei massimi e dei minimi. L'esistenza di sottosuccessioni convergenti pertiene ancora alla topologia, mediante il concetto di compattezza. La stessa definizione di limite è topologica: il librettino LIMITS di Beardon propone un approccio unitario all'analisi matematica a partire dalle successioni generalizzate, o nets, definite su insiemi upward-filtering: anche l'integrale di Darboux-Riemann è nient'altro che un opportuno limite rispetto alla convergenza di partizioni sempre più fini.

Pedagogicamente è però altrettanto evidente la spinta a recuperare il contesto schiettamente unidimensionale e specifico delle lezioni di Cauchy: intervalli chiusi e limitati al posto degli insiemi compatti, intervalli privati degli estremi al posto degli insiemi aperti, uso smodato dall'assioma di continuità per celare la più generale topologia, ecc.

Concretamente, sarebbe possibile proporre il testo di Stromberg (qui un'anteprima) alle matricole di oggi? Sarebbe possibile recuperare l'intuizione di Giovanni Prodi, che si accontentava di definire l'integrale per funzioni continue ma descriveva nel dettaglio i primi rudimenti topologici?

Il dilemma è quello di sempre: non possiamo, o non vogliamo? Qual è il peso specifico dell'integrale di Riemann per funzioni discontinue, nel complesso dei contenuti della laurea triennale in matematica? Sinceramente trascurabile: Stromberg arriva ad affermare che l'integrale di Lebesgue (definito à la Daniell, senza la teoria stratta della misura) è tanto difficile da insegnare quanto quello di Riemann. E puntualmente spara un simbolico proiettile nella nuca di Riemann, parlando subito della costruzione di Lebesgue.

L'obiezione più comune è che la topologia sarà insegnata dai geometri nei corsi successivi, e che basta usare gli intervalli per fare tutta l'analisi. Certo, basta. Mi domando però se occorra: posso predicare che gli spazi vettoriali astratti sono una perdita di tempo, perché alla fine i calcoli si fanno con le matrici e le $n$-uple di numeri. Di questo passo la laurea in matematica si trasforma in una infinita scorciatoia utilitaristica. Dietro questi discorsi si vede forse un altro ribaltamento di prospettiva: se un tempo la laurea in matematica era cucita addosso ai futuri insegnanti e ai futuri ricercatori, oggi è sempre più inclinata verso i futuri lavoratori del settore privato. Dunque si dà quanto basta per lavorare nelle assicurazioni, nelle banche, nelle aziende informatiche. E i prerequisiti per arrivare a fare matematica nuova sono spinti sempre più in là, come quella famosa notte di Mario Calabresi.

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