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Ministero delle attività improduttive
Sono sempre più convinto che il già ricco elenco di ministeri della Repubblica manchi di quello più importante: quello delle attività improduttive.
Utilizzo l'aggettivo improduttivo come negazione della produttività in senso mainstream: la produzione di beni materiali tangibili ed immediatamente vendibili (in teoria) al miglior offerente. Non è un mistero che la politica italiana consideri meritorie quelle attività, prevalentemente imprenditoriali, che consentano (sempre teoricamente) una realizzazione di cassa con poco sforzo. Al contrario, domina la convinzione che gli investimenti, economici e umani, siano sprechi, perché tanto nel lungo periodo saremo tutti morti.
L'ipotetico ministero delle attività improduttive dovrebbe accorpare esattamente i settori della società che lavorano non già per far comprare il SUV all'imprenditore, bensì per migliorare le condizioni di vita dei figli e dei nipoti. Penso, per fare qualche nome, al sistema sanitario, alla scuola e alla ricerca scientifica e tecnologica, al welfare.
Questi sono settori tutt'altro che improduttivi (nel senso nobile del termine), poiché morire di morbillo (come avviene in troppi Paesi emarginati) o crescere semi-analfabeti non sono condizioni ideali per il benessere. Certamente i soldi per la scolarizzazione di medio-alto livello non saranno mai recuperati nell'arco di pochi mesi o di pochi anni. Parafrasando un politico miope del recente passato, si fanno più soldi producendo scarpe di lusso che pagando borse di studio agli studenti meno abbienti (e mettiamoci pure meritevoli, per non essere accusato di remare contro la meritocrazia). Ma nemmeno questo è vero: le capacità di sviluppare scienza e tecnologia d'avanguardia potrà essere sfruttato a tempo debito anche dalle imprese, che potranno vendere prodotti migliori e più competitivi. Capire questo richiede uno sforzo notevole, e una lotta contro il basso istinto di arricchimento personale e veloce.
Se una nazione evidentemente provinciale come l'Italia ha una destra politica apertamente schierata per un riavvicinamento all'economia post-feudale (pochi benestanti che comandano e tanti poveri che obbediscono e lavorano a testa bassa), sorprende che il progressismo nostrano abbia forti pulsioni ad assimilare gli stessi modelli di sviluppo. D'altronde, la visione mainstream è tale proprio perché main, cioè maggioritaria. La destra può tranquillamente sedurre i capitani d'industria (ammesso che esistano ancora), mentre la sinistra deve… fare lo stesso!
E così l'ala progressista esulta per le vagonate di milioni alle scuola paritarie, che forse dovrebbero camminare con le proprie gambe. Non è strano: se lo Stato investe nella scuola e nell'istruzione, sono proprio i principi del capitalismo che destinano all'investitore i frutti dell'investimento. Chi potrebbe lamentarsi perché un'azienda privata non sovvenziona la concorrenza? Il nostro capitalismo all'amatriciana pretende invece che "quello che è mio è mio, e quello che è tuo è ancora mio".
Paradossi del sistema cui siamo pervenuti dopo decenni di sudditanza psicologica al dio (minuscolo) capitale. E poi ci si sente rivoluzionari perché si vota un comico che invoca la povertà certificata per gli amministratori. A me fa venire in mente Salazar, il dittatore portoghese che conduceva una vita monastica, senza nemmeno prender moglie per non doverla mantenere. Impose per decenni un regime di austerità (almeno per la massa), mantenendo tuttavia il potere assoluto nelle proprie mani. La Storia è una grande ruota, che prima o poi resuscita i morti.
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