Mentre ero alla stazione di Milano Porta Garibaldi in attesa del treno per Firenze, ho trovato sugli scaffali di una libreria
questo romanzo di
Mauro Corona. Era uno dei pochi volumi dell'autore che ancora non possedevo, e ne ho approfittato per avere una lettura da viaggio. Avevo letto alcuni giudizi severi su questo libro, ed effettivamente il primo impatto non è dei migliori. Corona ci catapulta in un mondo improvvisamente (ma davvero improvvisamente?) privo di idrocarburi: niente più petrolio, né gas, né combustibili di origine fossile.
L'umanità è in preda alla disperazione, poiché decenni di dipendenze energetica dalle fonti non rinnovabili impediscono di fare praticamente qualsiasi cosa. Non c'è corrente elettrica per alimentare fabbriche, scuole, ospedali ed abitazioni private. Non c'è riscaldamento, e casualmente (!) la crisi energetica scoppia in pieno inverno. Il cibo presto scarseggia, le malattie decimano una popolazione finora abituata ad ogni genere di cura medica, i vecchi si spengono e i neonati faticano a superare le prime settimane di vita. Insomma, è una piccola Apocalisse.
Conoscendo Mauro Corona, la tesi è facilmente intuibile: bisogna tornare al passato, epoca salvifica in cui uomini e donne vivevano in armonia con la natura, rispettandone le leggi e finanche i capricci. Ed è questa tesi che appare quantomeno discutibile al lettore. O, più precisamente, il fatto che l'autore provi un evidente godimento nel rigirare il coltello nella piaga. Infatti basta un libro di storia moderna o un documentario televisivo per notare quanto fosse agra la vita del bel tempo che fu. Il lettore vorrebbe qualche parola di conforto, un'ammissione che fame e stenti non sono il migliore dei mondi possibili.
E invece questo conforto è astiosamente respinto dall'autore, che decanta le meraviglie della
morte bianca e nera, unica igiene del mondo. È una tesi chiaramente provocatoria, ma non per questo meno fastidiosa da condividere.
Se aggiungiamo la prolissità di alcune pagine piene di invettive contro politici, intellettuali, giornalisti (chiamati sistematicamente
pennivendoli), ingegneri e impiegati, ecco che diventa difficile continuare la lettura. Ci sono strizzate d'occhio ad un certo qualunquismo, e l'affermazione che solo montanari e contadini possiedono la vera saggezza suona piuttosto saccente in bocca ad un montanaro di Erto.
Eppure conviene arrivare all'ultima pagina, perché non tutto è semplice come appare. E puntualmente si verifica l'inevitabile: dopo un inverno di agonia, l'umanità sopravvissuta ha imparato a coltivare ed allevare secondo i modi antichi, ha cancellato ogni forma di politica e di gerarchia, tutti vivono nella speranza operosa di un futuro migliore. Non può che essere una parentesi, però. Corona ci depista consapevolmente per tre quarti del libro, e converge in ultimo verso la penosa realtà: appena la paura e la fame allentano la morsa, la bestia umana ricade nei suoi peggiori difetti. Tornano i ladri, gli assassini, le sopraffazioni, e dunque torna l'esigenza di un capo e di un sistema di polizia. La gerarchia sociale è presto ricostruita, nel giro di poche settimane emergono i nuovi potenti e i nuovi aguzzini. Perché l'uomo è un gran coglione, per usare le parole di Corona. L'uomo è l'unico animale talmente imbecille da correre incontro all'estinzione per colpa propria.
Non credo che
La fine del mondo storto sia fra i romanzi più riusciti di Mauro Corona; lo stile è talvolta pesante e un po' volgare, troppe pagine si ripetono identiche fino alla noia. L'idea non è ovviamente originale, e si basa su un certo millenarismo che appartiene alla specie umana. Eppure è una lettura complessivamente utile, perché sappiamo che qualunque ovvietà si fonda su verità indubitabili. Che si viva in un mondo
storto (aggettivo dialettale diffuso in tutto il Nord Italia, che significa più o meno sbagliato) dove il benessere è una virtù fine a se stessa credo sia innegabile. Con l'accortezza di non prendere alla lettera la tesi dell'autore, questo libro è uno spunto di riflessione per il nostro futuro.
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