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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Per un superamento dell'emergenza nella didattica universitaria nel tempo della pandemia


Almeno per i calendari accademici europei, la prima fase acuta della pandemia ha raggiunto le università in perfetta sovrapposizione con l'avvio del secondo semestre. Questa occorrenza, che sarebbe stato difficile (ma forse non del tutto impossibile) prevedere, ha comportato uno stato d'emergenza per ogni ordine di didattica. Le misure di lockdown conducono ad una serrata quasi istantanea di tutti i nodi nevralgici di un Paese, e i docenti universitari hanno dovuto inventare forme di insegnamento alternative alla presenza in aula.

A distanza di quattro mesi circa, quasi tutte le accademie affrontano il problema di programmare il primo semestre del prossimo anno. Ma come? Le condizioni al contorno sono sensibilmente diverse fra Stato e Stato, fra regione e regione: alcuni atenei di fama internazionale hanno annunciato che lasceranno gli studenti a casa, altri confidano di ripopolare i campus secondo principi di prudenza e convenienza.

Di seguito mi soffermo su pochi punti che, nella mia beata ignoranza di logiche di potere e di economia, da docente ritengo fondamentali affinché la tragedia umana e sanitaria non si accompagni ad un indebolimento (qesto sì, prevedibile) dell'istruzione più alto.

Una visione programmatica stabile

E' sufficiente visitare i siti delle principali università italiane per accorgersi che i rettori e le governance si muovono tra speranze e paure. Questi tutti accendono la speranza di avere gli studenti negli edifici e nelle aule, ma evidentemente considerano l'eventualità di restare nuovamente chiusi in casa.
Senza poter scendere, per mia mancanza, nei risvolti economici e politici connessi a questo genere di decisione, la mia personale opinione si appoggia ad un adagio lombardo: val püsee un andaa decis che cent "andèm!" (vale di più un partire decisi che cento "partiamo!").

Che significa, per la didattica? Significa che cominciare in aula, poi magari chiudere per un mese, poi forse rientrare per un altro mese, sarà anche adattativo; ma è terribilmente nocivo alla qualità dell'insegnamento. Vediamo perché.

Innanzitutto, c'è la questione umana: perpetuare l'emergenza estema anche nelle attività formative è traumatizzante per studenti e perfino docenti. Non sapere mai se lunedì prossimo saremo in aula o dietro un computer, con lo stress per ogni colpo di tosse e ogni mal di gola, non costituisce il clima ideale all'apprendimento. Stiamo trattando di giovani ventenni, non di infanti di prima elementare: se il rischio di contrarre un pericolo virus è alto, una mente giovane ma adulta comprende che la gioia di stare fra colleghi e amici può e deve passare in secondo piano. Ma vivere sospesi tra DPCM di chiusura improvvisa e consultazioni di bollettini della Protezione Civile non è un bel vivere.

In secondo luogo c'è un evidente problema di natura pratica: anche una piccola frazione degli immatricolati di una università media sono migliaia di individui che non risiedono - tipicamente - a pochi passi dal campus. Anzi, molti di essi sono abituati ad affittare stanze o appartamenti dove vivere nei mesi delle lezioni. Molti altri pendolano con treni o autobus fra la residenza e l'università. Si parla di centinaia di euro, fra affitti e abbonamenti ai mezzi pubblici di trasporto. Non è semplice affittare di mese in mese, e non è affatto conveniente abbonarsi di settimana in settimana, in relazione all'andamento di un'epidemia largamente imprevedibile. Un ragione in più per programmare un semestre, almeno, nel modo più robusto possibile.

In terzo luogo c'è la questione pedagogica. Se ne sta parlando parecchio, finalmente con buon senso: che cos'è la didattica universitaria a distanza? Come la si rende sostenbile al di fuori di un'ottica emergenziale?

Insegnamenti a distanza

Nel momento dell'emergenza, va da sé che bisogna arrangiarsi con quello che c'è. Io, per esempio, ho dovuto convertire un corso di magistrale con una manciata di studenti in un corso composto da lezioni videoregistrate in differita. Ammetto di esserne rimasto piuttosto deluso, perché è proprio l'ultima risorsa prima di alzare bandiera bianca. La prospettiva futura, però, concede alcuni mesi di preparazione e di studio per svincolarsi dalla "canna del gas". Sempre se, è chiaro, si desideri davvero farlo.

Prendiamo un caso concreto: l'insegnamento di Analisi Matematica I (calcolo differenziale ed integrale opportunamente approfondito) per allievi fisici e matematici. Parliamo di matricole, cioè diciannovenni che escono da un quinto anno liceale monco, e da un esame di maturità confuso. Se l'università non programma almeno un semestre, ma forse bisognerebbe parlare di un anno intero, a prova di recrudescenza dell'epidemia, questi studenti correranno il rischio di seguire lezioni precarie, con le dita incrociate e lo spauracchio dietro l'angolo.

Perché, ad esempio, entrare in una classe di centocinquanta studenti e spiegare il concetto di successione convergente richiede un tipo di impostazione. Il docente parla e narra l'argomento, si ferma, guarda i volti degli studenti, li sollecita a togliersi ogni perplessità. Registrare a casa (o in ufficio) una lezione sterilizzata da qualsiasi contatto istantaneo con gli studenti è tutt'altra faccenda. Ma se questa dovesse essere la necessità per motivi cogenti, allora il docente dovrebbe rimodulare il lavoro. Sì, perché un'ora di analisi matematica videoregistrata è quasi come leggere il manuale di riferimento da soli: l'unica differenza è che prevale il senso dell'udito su quello della vista, ma la trasmissione del contenuto è fondamentalmente lo stesso.

Il docente che è costretto ad insegnare a distanza deve dunque prevedere un tempo per recuperare il senso della costruzione, dell'idea fondante che una lezione in presenza garantisce. Anche lo studente più curioso si deprime, se l'unico canale per mostrare al professore la sua curiosità è la posta elettronica. Dimostrare la proprietà archimedea di $\mathbb{R}$ davanti all'aula piena, oppure comodamente dietro ad un monitor, non sono la stessa cosa. Come qualcuno ha suggerito, si potrebbe pensare ad una contrazione della lezione teorica classica a vantaggio di una lezione costruttiva a distanza.

Un esercizio, magari semplice, risolto in videoregistrazione mettendosi nei panni dello studente che lo affronti per la prima volta sarà certamente più istruttivo dello stesso esercizio liquidato con il tipico autoritarismo dei libri di testo: ecco come si fa, impara! Ma per questo serve tempo, un tempo diverso da quello della dinamica in presenza che propone teoria ed esercizi in successione.

Se manca una progettualità di respiro medio-ampio, né i docenti né tanto meno gli studenti potranno fruire nel modo migliore dei corsi. Come si converte, magari dal venerdì sera al lunedì mattina, un insegnamento in presenza in un insegnamento a distanza, a causa di un focolaio virale? Si converte nell'ottica emergenziale, e siamo da capo: sei mesi sprecati.

La solidarietà in tempo di epidemia

Sarebbe auspicabile che le istituzioni (leggasi: università) appartenenti ad aree omogenee del Paese adottassero decisione omogenee. In parole un po' brutali: l'epidemia non diventi l'ennesimo argomento di competizione tra avversari in competizione. Se l'ateneo A della città di M. apre le porte al 50% degli immatricolati, mentre l'ateneo B della stessa città sceglie la didattica pura a distanza, si crea un'indebita manipolazione del mercato.

E' infatti chiaro che, a parità di rischi, famiglie e giovani devono scegliere quale modello premiare. Ma questa scelta potrebbe, in piena onestà e buona fede, ad esempio incentivare comportamenti pericolosi dal punto di vista sanitario. Per tacere del fatto che il governo centrale o regionale può in qualsiasi momento imporre o rimuovere restrizioni che trasformeranno le modalità dell'ateneo A in quelle dell'ateneo B, o viceversa. Perché andare in aula è bellissimo, ma se poi ci si ammala a centinaia bisogna correre ai ripari e chiudersi in casa.

In un regime di forte concorrenza, non è ragionevole lasciare alle governance il peso e la responsabilità di giocare con le paure e le speranze dei futuri studenti. Deve esserci un'indicazione precisa delle autorità competenti, senza troppi margini di manovra per i singoli. Questo, temo, in Italia non accadrà mai.

Perché è adesso il momento di indicare precisamente, non quando e se ci sarà un'altr emergenza. Se le autorità pubbliche consentono all'ateneo A di vedere qualcosa di ipotetico e forse ingannevole, poi il danno sarà irreparabile. Come sempre, in Italia. Allo stato attuale, vale l'antica regola del non si sa mai: prudenza, prudenza e prudenza. Ma soprattutto bando alla strumentalizzazione di un virus per accaparrarsi gli studenti della concorrenza. I concorrenti devono continuare a competere al netto dell'emergenza, non al lordo.

Esami

Il capito della valutazione dell'apprendimento (leggasi: esami di profitto) è uno dei più spinosi. La commissione esaminatrice ha un ruolo di garante della regolarità che molti colleghi apertamente contestano. "Non siamo gendarmi", è l'argomento più ascoltato. Ma la legge difficilmente prevederà l'affiancamento delle forze dell'ordine che tutelino il rispetto delle regole in una sessione pubblica di esami. Dunque resteremo noi, i docenti, ad avere il doppio ruolo di educatori e di pubblici ufficiali. Gli esami a distanza pretendono una dose aggiuntiva di fiducia nei candidati, che sono nascosti dietro una videocamera, nel loro appartamento.
È evidente che ci piacerebbe tornare a fare esami come prima, e ci mancherebbe altro. Ma le modalità d'esame sono comunicate agli studenti ben prima dell'inizio dei corsi, e dovrebbero essere il più possibile costanti nel tempo. Se lo studente deve preparare uno scritto articolato, magari con esercizi e problemi da risolvere con dovizia di dettagli, studierà in un certo modo. Se, invece, dovrà affrontare un quiz a risposta chiusa e un'interrogazione approfondita in seguito, si preparerà in un modo diverso. Chiedere di essere pronti a tutto, in base ai decreti del governo, non dovrebbe essere la risposta. Perché significa ammettere che si vive alla giornata, confidando nella Provvidenza.

Conclusioni

Siccome siamo tutti allenatori della nazionale di calcio, anche io avrei le mie idee e le mie proposte. Non è questa, tuttavia, la sede per discuterne; inoltre sono consapevole dei miei limiti e della mia impreparazione in materia di politica universitaria. Abbiamo detto chiaramente che nessuno sa prevedere il futuro, ma proprio per questa ragione la didattica universitaria dovrebbe essere offerta in una prospettiva di stabilità massima. È necessario un ragionevole compromesso tra il sacrificio di non poter tornare alla vita precedente, e il bisogno di dare sicurezza e continuità all'offerta formativa.
Scommettere sull'ottimismo assoluto o sul pessimismo totale è pericoloso come qualunque estremismo. Però la pretesa di mutare giorno per giorno la didattica comporta un aggravio di fatica e stress che tutti, studenti e docenti, preferirebbero evitare.
Gli argomenti che ho esposto mirano a rafforzare la mia tesi, che è quella di accettare il rischio di una scelta di medio periodo, indipendentemente dalle condizioni al contorno. Una scelta che deve conciliare l'indispensabile richiesta di sicurezza sanitaria nei luoghi di studio e di lavoro con l'esigenza di trasmettere conoscenza e cultura nel migliore dei modi. Mille sono le sfumature, ma la peggiore è quella che dice: cominciamo così, poi si vedrà. È una politica che sminuisce a svilisce il lavoro di studenti e docenti, come se si trattasse di un lavoro fatto con la mano mancina, scontato e perfino superfluo.

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