Ieri ho letto una notizia di quelle curiose, che sembrano scritte apposta per strappare un sorriso: la mia università organizza un Open Day per ... genitori! Sembra strano, vero? Vediamo di analizzare l'informazione.
La premessa è che gli uffici di orientamento sono presi d'assalto dai genitori delle aspiranti matricole. Statisticamente, il numero di diciottenni o diciannovenni che si iscrivono all'università mandando avanti la mamma o il papà è costante, se non in aumento. Ora, se tutto si riducesse ad un aiuto nell'interpretazione della burocrazie, non ci sarebbe alcunché di sbagliato. Il guaio è che i genitori si comportano come se le matricole fossero loro! Fanno domande precise, e anche le tipiche domande del genitore apprensivo: quale laurea garantirà al mio pargolo/alla mia pargola il migliore dei futuri possibili?
Sono ansie e problemi seri, per carità. Ma la sensazione, apparentemente condivisa dagli esperti di orientamento del mio ateneo, è che questi dilemmi appartengano più alla mamma che al futuro studente. E questo comporta una domanda: saranno pronti, questi genitori, a rapportarsi con un'università molto diversa da quella della loro gioventù? Avranno capito il senso dei CFU (Crediti Formativi Universitari), degli esami facoltativi, della laurea triennale o magistrale?
Riscoprendomi conservatore, continuo a pensare che le lauree del vecchio ordinamento fossero molto più moderne di quelle attuali; forse più impegnative, ma senz'altro più uniformi per contenuti e metodologie. Solo nell'ambito ristretto della matematica, sta diventando impossibile rapportare due laureati in matematica presso due sedi distinte. C'è chi fa tanta analisi matematica e poca geometria, chi fa troppa geometria e poca fisica matematica, chi studia solo analisi numerica e nemmeno un teorema di calcolo delle variazioni, e così via. Ma forse, a pensarci bene, è una situazione fortemente voluta e cercata.
La morale che io traggo da questa notizia apparentemente curiosa è che c'è un forte scollamento fra le aspettative degli attuali cinquantenni e la realtà che gli attuali ventenni dovranno presumibilmente vivere. Presto la laurea smetterà completamente di essere quell'ascensore sociale che garantiva ai figli uno status migliore di quello dei genitori. Si tratta di una prospettiva piuttosto amara, ma penso inevitabile: in una società povera, è più facile osservare miglioramenti sensibili. Poi il sistema tende a raggiungere un equilibrio, e lo spazio per un salto di classe si fa più angusto. Né dobbiamo dimenticare che, fino agli anni '60 del secolo scorso, la percentuale di giovani laureati era decisamente bassa e faticava ad apparire in un contesto ancora arretrato e post-bellico. Oggi sentiamo dire che servirebbero piuttosto giovani che vogliano lavorare dopo il diploma, recuperando quelle professioni più manuali che sono diventate sgradite. Non so se credere a questa interpretazione, spesso sposata dagli industriali e dagli imprenditori che cercano manodopera a basso costo. Ma è un consolante dato di fatto che, nel terzo millennio, l'accesso agli studi superiori sia aperto praticamente a tutti i ceti sociali, seppur con qualche differenza.
Se ripenso ai miei diciannove anni, quando sono uscito dal liceo e mi sono immatricolato al corso di laurea in matematica, non ricordo pressioni da parte della mia famiglia. Ero certamente molto motivato, e sapevo che nessun altro tipo di studi mi affascinava come quello che ho effettivamente scelto. Non posso dire con assoluta certezza che studiare quello che ci piace sia più utile che studiare quello che la società sembra chiedere. A me piacerebbe che fosse così, perché la vita è una sola (e non una sòla, come direbbero a Roma) ed è giusto poterla vivere in modo appagante, senza sentirsi un robot al servizio di qualcuno.
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