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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament...

Ma l'informatica ha migliorato davvero la nostra vita?

Ma l'informatica ha migliorato davvero la nostra vita? D'accordo, sono un grande nostalgico del bel tempo che fu, e in determinati periodi dell'anno le mie memorie tornano a galla, spingendomi a disprezzare il mondo contemporaneo.

 
Mi è successo ieri, per diverse ragioni. La prima è stata la prova scritta di matematica all'esame di maturità. Navigando su alcuni siti per studenti, mi sono imbattuto nella risoluzione dei problemi, per mano di un professore di scuola superiore. Proprio per mano, visto che il file allegato era la scansione di alcuni fogli A4 zeppi di calcoli e di diagrammi vergati a penna biro. E subito ho ripensato a quella scatola gialla che conservo a casa, colma di pizzini scritti a mano dal mitico prof. Dario Pavesi: quasi tutti i compiti in classe che ho dovuto affrontare nel triennio del liceo. Iniziava l'ultimo decennio del millennio (!), e la videoscrittura era ancora appannaggio di pochi. Il professore arrivava in classe con le fotocopie degli esercizi, scritti a mano, e in corsivo, su fogli a quadretti. Sono passati più di vent'anni, ma li conservo ancora, e non potrei provare la stessa nostalgia davanti a fogli stampati con carattere Helvetica da una comunissima stampante a spruzzo d'inchiostro.
 
La seconda ragione è che ho finito un (breve) articolo scientifico, ed ovviamente l'ho douto scrivere in LaTeX. Alternative non ce ne sono, se voglio proporlo per la pubblicazione su qualche rivista specializzata. Colpito dal solito attacco di nerd-aggine (e non fate giunchi di parole!), penso di aver dedicato ore ed ore alla ricerca del migliore stile di impaginazione, del migliore set di caratteri tipografici, della più gradevole interlinea. A ben guardare, tutto tempo e fatica sprecati: ammesso - e non concesso - che l'articolo sia accettato per la pubblicazione, sarò obbligato ad utilizzare lo stile della rivista. Eppure non sono più capace di scrivere i miei articoli a mano, come facevo dieci anni fa; a mano faccio i calcoli e le dimostrazioni, ma praticamente scrivo l'articolo al computer. Il risvolto romantico è completamente perduto! Come immaginare Gauss, Cauchy, Peano, che premono [Ctrl-C] e [Ctrl-V] per riportare una formula citata nell'introduzione? Avete mai visto i manoscritti dei matematici del 1800? Hanno un fascino unico, che nessun carattere tipografico potrà eguagliare.

Pur avendo colto nel lontano 1998 le potenzialità e le comodità dell'informatica e della rete internet, mi accorgo sempre più spesso che il mostro è cresciuto in me: non più uno strumento, ma una entità dotata di forza persuasiva. Perché non mi preoccupo che il telefono resta muto per giorni, ma mi sento nervoso se non ricevo email? Perché divento ansioso se la rete 3G del mio smartphone scompare per qualche ora? E perché mi sforzo di aggiornare questo blog (che pochi leggono e quasi nessuno commenta)?

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