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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Non c'è più disciplina

Il titolo è una frase che ho sentito ripetere infinite volte da mio nonno. Mi è tornata in mente ieri sera, dopo aver chiuso il bellissimo libro di Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano. Per inciso: la grafia altipiano sembra essere quella ormai dominante. Gli autoctoni di Asiago utilizzano prevalentemente la grafia altopiano, sia nelle denominazioni ufficiali, sia nel discorso a voce.



Verso la fine del libro, Lussu riporta un dialogo fra ufficiali, e uno di essi afferma che la ragione per cui l'esercito austro-ungarico è superiore al nostro (quello italiano, ndr) è che i soldati tedeschi obbediscono agli ordini senza pensare. Il soldato italiano, invece, valuta ogni volta se l'ordine sia giusto, legittimo, opportuno.

Davanti ad affermazioni simili, occorre porsi con un certo distacco. Queste parole uscivano dalla bocca di un militare di carriera del 1916, impegnato nella Grande Guerra e impotente di fronte all'inferiorità delle proprie truppe. Ce n'era abbastanza per trarre conclusioni frettolose e ciniche.
Eppure, come sempre, resta forse un'ombra di verità; anzi, potremmo togliere questo discorso dal contesto e calarlo nel contesto più umano della vita civile. Le generazioni nate prima del 1930 erano educate prevalentemente secondo la dottrina militare dell'obbedienza e della disciplina. A meno di essere menomati o malati cronici, tutti gli uomini erano tenuti a servire la patria sotto le armi, magari in prima linea. Sempre per citare mio nonno (classe 1913, dieci anni di militare fra il 1933 e il 1943), la guerra ti fa diventare una bestia, ma ti insegna la disciplina.

Sono discorsi un po' inquietanti, che scadono facilmente nella banalità. Ma è difficile nascondere il senso di anarchia che regna nelle generazioni più giovani: la fiducia nelle istituzioni civili sembra morta, basta un brutto voto a scuola per denunciare l'insegnante o farsi giustizia da sé. Il richiamo al rispetto delle leggi e delle regole sembra diventato sinonimo di oppressione della libertà individuale, e purtroppo chi dovrebbe dare l'esempio si rivela il peggior peccatore. Senza passare per nostalgico (e di che cosa, visto che appartengo probabilmente ad una generazione "bruciata"?), siamo certi che tutto ciò sia un miglioramento della società?

Nel libro di Lussu ci sono alcune figure spaventose, e si stagliano due ufficiali evidentemente folli. Uno di questi, che pretendeva la decimazione per un battaglione che aveva semplicemente cercato di uscire da una caverna scavata male durante un bombardamento, fu ammazzato a fucilate dal plotone di esecuzione, dietro ordine di un altro ufficiale che non poteva tollerare certi abusi di autorità. Ma questi, dopo una notte di tormenti, decise di denunciare se stesso alle autorità, per aver disobbedito ad un ordine. Venne arrestato, ma fondamentalmente se la cavò.
Anche mio nonno mi raccontava episodi simili, di ufficiali esaltati che morivano per misteriose fucilate nella schiena durante i combattimenti. Ma era questa insubordinazione? O era applicazione del principio di umanità?

Non potrei mai affermare che la medicina per i mali della società sia l'obbedienza cieca all'autorità costituita. Ma credo sarebbe opportuno recuperare quel minimo di rispetto per le regole del vivere civile che abbiamo lasciato morire di inedia. È doveroso disobbedire alle leggi ingiuste, ma è altrettanto giusto obbedire a quelle lecite. In Italia ce la siamo cavata per decenni grazie alla simpatia (e alla corruzione), ma tira una brutta aria: la nostra furbizia non ci ripaga più. Quando un pubblico ufficiale afferma che "la legge non ci consente più di fare questa cosa, ma stiamo cercando un modo per continuare come prima", magari sta lottando contro una legge ingiusta. Ma, più probabilmente, sta cercando di fare il furbo; ancora una volta, "gli italiani, sai sempre da che parte cominciano una guerra, ma non sai da quale parte la finiranno."


PS: stamattina, in treno, ho iniziato a leggere Niente di nuovo sul fronte occidentale, di E. M. Remarque. Dopo il savoiardo Lussu, l'austro-ungarico Remarque. Ho letto solo poche pagine, ma ho già notato una somiglianza: a vent'anni, un soldato pensa soprattutto che ha perso gli anni migliori della propria vita. Non pensa a vincere per il suo re o il suo kaiser.

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