Ieri era il 25 aprile, e ho approfittato della splendida giornata per andare a
Cunardo a fare una visita alle tombe dei miei avi. Una volta in paese, abbiamo salutato per caso una signora anziana che aveva, più di vent'anni fa, uno splendido pastore tedesco di nome Ricky. Dopo un saluto di circostanza, la signora ci ha raccontato il
suo 25 aprile, quello vero. Era una bambina, viveva sopra Bassano del Grappa, e la sua famiglia viveva del lavoro nei campi. Quel giorno suo nonno, perché ormai c'erano solo vecchi, donne e bambini a badare ai campi, dovette spostare i cadaveri dalle sponde del Brenta: secondo la signora, morirono 68 000 italiani e più di centomila tedeschi.
Francamente non sono in grado di giudicare la veridicità del suo racconto; però non mi sembra così fondamentale che date e numeri corrispondano alla contabilità certificata dagli storici. La scorsa primavera ho passato qualche giorno sull'altopiano di Asiago, e sono passato anche da Bassano. Ho imparato che quelle terre hanno sopportato gli insulti di due guerre atroci e quasi intestine.
Purtroppo sappiamo che nessuna data, per quanto fondamentale, è ricordata per sempre; il tempo pulisce le ferite e cancella i rancori, e come potremmo ancora soffrire per gli eccidi dell'impero romano o di Federico Barbarossa?
Eppure, finché ci sono testimoni, ancorché parziali e non del tutto attendibili, non dovremmo dimenticare. Se il tempo guarisce le ferite, noi uomini siamo molto meno abili a gestire la memoria di chi non c'è più. Per quanto mi riguarda, il racconto di quell'anziana signora veneta è stato più importante di mille commemorazioni di sindaci in cerca di visibilità mediatica (egregio signor sindaco di Cantù, era davvero inevitabile il paragone fra i martiri del fascismo e gli italiani che si sentono oppressi dalle tasse?).
Post scriptum.
Non ho mai provato molto interesse per gli eventi della Seconda Guerra Mondiale. Il mio legame con quegli anni passava per mio nonno Federico, allevato a pane e moschetto (fascista perfetto) e spedito dal duce a conquistare l'impero d'Africa. Nelle sue parole, il 25 aprile era il giorno più triste, e forse riesco a capire il suo giudizio.
E poi la Seconda Guerra Mondiale era talmente esagerata nel suo orrore, da apparire grottesca. Se fossi un romanziere, non trarrei alcuna suggestione da quel conflitto scatenato da pochi pazzi e alimentato da milioni di stupidi facinorosi. Per me è la Grande Guerra l'evento più tragico del Novecento. Una guerra estenuante, combattuta da ragazzi mandati a morire, di freddo e di pallottole, nelle trincee gelate e battute dal vento. Intere generazioni furono strappate al proprio destino in nome di qualche cima e di qualche chilometro di terra.
Proprio nella banalità di un conflitto lontano dai deliri razzisti del nazifascismo sta il fascino perverso della Prima Guerra Mondiale. Quattro anni di miseria, di morte e di devastazione hanno esaltato la stupidità umana. E su tutto, quasi per espiare le colpe umane, la tragica epidemia di influenza spagnola: il tentativo estremo di ristabilire un ordine mondiale, la falce che non conosce misericordia. Mai come in quel tempo il Male, se un Male esiste, ha provato il senso della vittoria.
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