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Recensione: Le coup-de-vague
Scritto da Georges Simenon nel 1938 e tradotto in italiano nel 1969 per la collana Oscar Mondadori, è ormai una rarità da bancarella dell'usato (reale o virtuale). Il titolo italiano, Le zie, seppur aderente alla trama perde il senso metaforico dell'originale. In francese, coup de vague significa grossolanamente ondata, un vero e proprio "colpo d'onda" che fa perdere l'equilibrio. Nel romanzo, "Ondata" è anche le denominazione dell'attività commerciale che il protagonista Jean manda avanti con le due zie Hortense e Emilie, nei pressi di La Rochelle.
Jean ha ventotto anni, e da sempre vive sotto l'ala protettrice delle anziane (ndr: mi adeguo ai canoni simenoniani secondo cui un uomo è adulto a venti, maturo a quaranta, quasi decrepito a sessant'anni. Questa classifica rispecchia solo parzialmente il senso comune degli anni in cui lo scrittore belga è cresciuto, e probabilmente rientra nella mentalità misantropa che ne caratterizza tutta l'opera letteraria) parenti. Orfano, è stato allevato nella casa di campagna che si affaccia sulla coltivazione di cozze che le zie vendono perfino in Africa. La vita di Jean è tranquilla, sempre uguale a se stessa; possiede una motocicletta con la quale raggiunge la città, dove svolge le commissioni per le zie e frequenta qualche locale.
Ma Jean è anche un uomo prestante, e non può reprimere certe esigenze (ndr: altro tema martellante nella produzione di Simenon). Una sera, nel bosco, prende una giovane del suo paese, e non sa che sarà l'inizio di una tragedia. Marthe, questo il nome della ragazza, è figlia dei vicini di casa, e resta incinta. Come da cliché, bisogna evitare lo scandalo: Hortense convince la ragazza ad abortire segretamente a La Rochelle, nello studio di un medico senza scrupoli. Casualmente Jean vede le due donne entrare nello studio medico, e comprende la situazione: il senso di soffocamento, represso per tutta la vita, inizia a ribollire, e culminerà durante la cerimonia di nozze che il padre di Marthe impone ai due giovani. In un capitolo memorabile, tutte le miserie e i rancori sopiti di un intero villaggio vengono alla luce: uno sbandato, sotto l'effetto dell'alcool, lancia pesanti insinuazioni sulla moralità delle zie, mentre i due sposi si sforzano di apparire felici.
Ma per loro non ci sarà felicità: Marthe è sempre malata, si parla di un intervento chirurgico per l'asportazione delle ovaie. Le due zie non vogliono che la giovane si operi, e la soffocano di cure e attenzioni. Jean è sempre più esasperato, detesta il corpo spento e malato della moglie, e si sente prigioniero delle parenti, che tutti in paese chiamano arpie. Un giorno, ascolta la conversazione di Marthe con un'amica, e sarà questo il fattore di crisi: Marthe confessa di volersi operare al più presto, per abbandonare la casa delle arpie e trasferirsi in città. In quell'ambiente ha paura, non è serena e non può guarire. Il furore di Jean esplode, e costringe la moglie a rivelargli il segreto della sua famiglia che tutti sembrano conoscere da sempre: una delle zie è in realtà sua madre, che lo ha partorito di nascosto, e con la complicità dell'intero villaggio.
Nel frattempo Hortense e Emilie spingono il nipote a recarsi ad Algeri, per regolare alcuni affari; dopo mille titubanze, Jean si imbarca e passa qualche giorno in Africa. Ma una sera, mentre cerca conforto fra le braccia di una prostituta, si rende conto della sconvolgente realtà: è stato allontanato di proposito, perché le zie devono realizzare il loro spaventoso piano. Jean torna precipitosamente a casa, e puntualmente scopre che Marthe è già stata sepolta.
Il cerchio è chiuso: nessuno può alterare l'equilibrio di quella famiglia morbosa, nessuno può allontanare Jean dall'affetto soffocante delle due arpie. Simenon chiude il romanzo con una frase un po' brusca: negli anni a venire, nessuno dirà "il vedovo Jean", ma solo "lo scapolo Jean, che ha sempre vissuto con le due anziane zie".
Trama assai più cupa di quello che si potrebbe pensare, è un esemplare della miglior narrativa di Simenon; una di quelle storie ambientate nella provincia bigotta, nelle stanze surriscaldate della piccola borghesia. Ci sono tutti gli ingredienti tipici: le atmosfere stagnanti, il disprezzo per la malattia e la decadenza, l'amore carnale ma privo di vero affetto, e infine la morte.
È un peccato che Adelphi non abbia ancora pubblicato una traduzione aggiornata di questo capolavoro.
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