I fantasmi di pietra è il primo libro di
Mauro Corona che ho letto. Non è la sua prima opera in ordine cronologico, ma mi è sembrata la scelta migliore per accostarmi al suo mondo e alla sua scrittura.
In questo lungo racconto, Corona ci presenta, in una rassegna commovente e schietta, le quattro vie del suo paese d'origine, Erto.
Erto (o più correttamente Erto e Casso) è uno dei borghi legati per sempre alla memoria di un'immane tragedia, quella del 9 ottobre 1963. Cinquant'anni fa, il monte Toc si rovesciò nella diga artificiale della valle del Vajont, e spazzò via migliaia di innocenti. Il centro abitato più colpito fu Longarone, ma l'onda della piena lambì le frazioni a valle di Erto e passò per Casso, come una falce. Praticamente nulla fu risparmiato dall'acqua, e per i due piccoli comuni montani arrivò il declino e lo spopolamento. Corona ci spiega che molti ertani, risparmiati dalla furia degli elementi, chiusero le case e cercarono un futuro migliore altrove: dove non era arrivata la morte fisica, arrivò la morte dello spirito. Dopo una lunga battaglia, gli ertani poterono tornare ad abitare nel paese vecchio, mentre quello nuovo, una new town antesignana, era stato costruito con il cemento armato più in alto, al riparo dal terreno franoso. Questa, sommariamente e con molte imprecisioni, la storia recente.
Perché ve ne sto parlando? Semplicemente perché ho visitato Erto e Casso poche settimane fa. Inconsapevole della storia, ho fatto quello che la viabilità induce a fare: sono entrato in Erto dalla porta principale, che conduce direttamente al paese nuovo. E l'impressione è tutt'altro che piacevole. Il cemento armato, che ha indubbi vantaggi sulle pietre e sulla malta, è il materiale dominante che conferisce alle abitazioni un'aria di solidità artificiale. Senza saperlo, ho parcheggiato l'auto proprio di fronte al laboratorio di Corona, in quel pomeriggio chiuso. C'era una comitiva di ragazzini che faceva picnic in attesa di un autobus che li portasse chissà dove. La scoperta del paese vecchio, a valle della strada principale che da Longarone conduce a Cimolais, Claut, Maniago, è stata casuale.
Poche vie su cui affacciano case e ruderi di case contadine, spesso sventrate dal tempo e dalle stagioni aspre di quella regione. Alcuni muratori stavano lavorando sui tetti, ma nemmeno un abitante si affacciava alla finestra o alla porta.
Non sono nuovo alla frequentazione di borghi fantasma: potrei citare Degioz, in Valle d'Aosta, che dopo il tramonto lascia un sentimento di inquietudine e di mistero nel visitatore occasionale. A Erto, invece, ho respirato un'aria diversa, di pace ma soprattutto di morte. La stessa morte che in fondo è la vera protagonista del libro di Mauro Corona.
La schiera di artigiani, bevitori, donne che si arrampicano nella neve per recuperare le capre, fabbri che battono le lame delle falci e falegnami che costruiscono botti, ragazzini che si arrampicano sul campanile in una gara pericolosa ma eccitante; tutte queste persone sono passate nel regno dei morti, lasciandoci solo ricordi e rimpianti. Come non commuoversi sulla pagine in cui Corona parla della giovane torinese, malata di leucemia, che voleva concludere la tesi di laurea nella casa della madre? Quella ragazza pallida, che nessuno conosceva, e che passò la sua ultima estate a Erto, ci resta negli occhi come una persona di famiglia.
Il libro offre anche spunti divertenti, come quello dell'anziano scapolo, rovinato dal vino, che pensava di essere diventato impotente per colpa del Wc-net: era solito lavare le mutande con il celebre prodotto che toglie il calcare dai gabinetti, ed era certo che il liquido si fosse trasferito dal tessuto agli organi genitali.
Eppure non c'è allegria, in questo libro. Il cimitero, che purtroppo non ho visto perché un po' ai margini del borgo, è una calamita per Corona. Il libro finisce lì, non solo geograficamente. Ad ogni stagione dell'anno corrisponde una via antica, e l'autunno finisce con l'arrivo al camposanto. L'ultima casa di ciascuno, come lo definisce l'autore, l'ultimo edificio che conviene descrivere. In quella terra riposano i personaggi che abbiamo incontrato fra le righe, o almeno quelli che sono rimasti dopo il Vajont.
Ecco, dopo il Vajont: un leitmotiv ostinato, sempre presente. In tutta la valle, nessuno ha potuto dimenticare, né perdonare. I nomi dei morti restano scritti sui muri e sulla diga, come un avvertimento ai posteri. Questa è una terra di dolore. Come dice un mio amico, qui ogni paese ha la sua disgrazia: non solo il Vajont del 1963, ma i terremoti, le stragi naziste, gli incendi devastanti. Forse è vera la leggenda che Corona ha recuperato dagli archivi parrocchiali e dalla memoria dei vecchi: le tre streghe che furono arse vive nel 1600 lanciarono una maledizione su Erto, promettendo un'eternità di dolore e tribolazioni.
Per carità, non bisogna credere che il Friuli sia tutto così: basta scendere pochi chilometri verso il mare, per trovare città moderne e talvolta assai anonime, basi militari e capannoni industriali. Più a nord ci sono le località sciistiche di Forni, del Cadore, c'è la Carnia e ci sono le alpi Giulie ad oriente. Anche Tarvisio è stata pesantemente abbandonata, ma resta un centro turistico vivo, al crocevia di tre popoli.
Il lato meridionale del Parco delle Dolomiti Friulane, al contrario, si è trovato schiacciato fra differenti modernità, come un piccolo albero soffocato dagli alberi vicini. Entrare nella valle è come fare un viaggio a ritroso nel tempo: qui impariamo che il primo televisore arrivò solo nel 1970, in ritardo di quasi vent'anni. Oggi c'è tutto, perfino un'ottima copertura della rete internet veloce. Eppure i pochi ragazzi che passano l'estate a Cimolais non fissano compulsivamente il telefonino come i loro coetanei di Pordenone e di Udine. Si rincorrono fra le vie del paese, giocano a pallone nel campo sportivo sotto la strada provinciale, salutano i forestieri e mangiano gelati ai tavoli delle osterie. In effetti, non sembrano così diversi dai canajs (ragazzi) come il piccolo Mauro Corona, che imparavano la vita prima del Vajont.
Adesso mi fermo, perché non voglio stancare il viandante che si sia soffermato su questo sito. Le ultime pagine del libro sono un inno alla speranza, ed è difficile trattenere le lacrime. Ma sono lacrime buone, quasi un ringraziamento agli ertani che ci hanno parlato dal passato e ci hanno tenuto compagnia.
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