Nella mia più che decennale carriera di lettore di Georges Simenon, due libri sono rimasti in un angolo: Pedigree e
Lettera a mia madre. Il primo perché è una sorta di autobiografia romanzata alquanto infedele, soppiantata dalle monumentali
Memorie intime. Il secondo perché ho sempre avuto paura di leggerlo.
Lettera a mia madre è il primo romanzo di Simenon pubblicato da Adelphi (nel 1985, dopo avere rilevato i diritti da Mondadori). È un libro minuscolo, novantasette pagine piene di spazi e stampate a caratteri larghi. Inizia con una data, 18 aprile 1974. Esatto: mentre io venivo al mondo, Simenon scriveva questa lettera postuma a sua madre, deceduta da tre anni e mezzo. Essendo scritto secondo lo stile del flusso di coscienza, è impossibile riassumerne la trama. Potremmo dire che lo scrittore belga, a quel tempo settantunenne, ricostruisce per istantanee la sua vita attraverso quella della madre. Il tempo della storia coincide con i pochi giorni di (serena) agonia della donna, in un ospedale di Liegi.
Dicevo della mia paura di affrontare questo piccolo libro. Conoscendo la storia e il carattere di Simenon, mi aspettavo l'inevitabile, cioè la struggente confessione di un uomo fondamentalmente incapace di amare. Temevo la lettura di una lettera colma di freddezza e rimpianto, invece che di amore e di serenità.
Non sono sufficientemente informato per prendere alla lettera certe descrizioni di crudeltà subite dal figlio Georges, ad esempio quando la madre si rammaricava con lui che suo fratello fosse morto (sostenendo implicitamente che lei avrebbe preferito perdere Georges). Se fossero vere, potrebbero giustificare il desiderio di fuga culminato in quasi cinquant'anni di separazione.
La verità è che Simenon e sua madre erano divisi da un atteggiamento diametralmente opposto per la vita: lei orgogliosamente povera, ultima fra gli ultimi; lui proiettato verso il riscatto, quasi umiliato dalle proprie origini umili. Lei incapace di accettare il denaro del figlio diventato benestante, e il figlio incapace di manifestare il suo affetto senza ostentare la ricchezza materiale. Alla fine lo scrittore confessa, soprattutto a se stesso, di non aver mai compreso sua madre. Ora che lei non c'è più, riesce ad accettare che ognuno è libero di costruire la propria esistenza senza vergogne e senza imposizioni. Simenon non prova sensi di colpa, ma si limita a riconoscere alla madre una coerenza intellettuale degna di rispetto. Forse non è molto, ma è pur sempre qualcosa.
Simone: da Livorno, non da Pisa
RispondiEliminaMarino batini
Simone: da Livorno, non da Pisa :-)
RispondiEliminaMarino Batini
Non ho capito...
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