Dopo aver letto, con colpevole ritardo di almeno dieci anni, il mio primo libro di Gianrico Carofiglio, ho pensato di sperimentare il ciclo di Guido Guerrieri. Sono partito dalla fine, come probabilmente non si dovrebbe mai fare. Approfitterò di questo post per allargare il discorso e toccare argomenti vagamente sociologici.
Per chi - come me - è appena arrivato alla letteratura di Carofiglio, qualche breve considerazione. Guido Guerrieri è un avvocato di Bari, con studio in centro città. Ha poco più di cinquant'anni, si occupa di diritto penale, e lavora con Annapaola, Consuelo e l'ex poliziotto Tancredi. Quella di Annapaola è una collaborazione un po'... speciale.
In questo capitolo della saga, Guerrieri riceve la visita di Lorenza, donna appena più matura di lui, con la quale ha intrecciato una fugace avventura alla fine degli anni Ottanta. Da questa donna ha imparato a diventare uomo, sebbene l'esperienza abbia ferito il suo amor proprio.
Lorenza ha un figlio, attualmente detenuto dopo la condanna per l'omicidio di un personaggio della piccola criminalità barese. Questioni di spaccio, apparentemente poco significative. La donna è convinta che suo figlio non abbia ricevuto, in primo grado, una buona difesa da un avvocato poi deceduto, e si presenta a Guerrieri fornendo un alibi che potrebbe scagionare il giovane. Comincia così il lavoro di preparazione del processo d'appello, che non sembra offrire grandi speranze di ribaltamento della sentenza. Ma per Guido si tratta di una questione personale, sua e di Lorenza.
La narrazione procede sempre su due piani: quello tecnico della difesa dell'imputato, e quella personale e intima del protagonista. Il primo, e lo dico dopo due giorni di riflessione, proprio non riesco a trovare alcuno spunto appassionante: Carofiglio esibisce le competenze legali in modo puntiglioso e talvolta saccente, senza però costruire un contesto di attesa e di coinvolgimento.
Il secondo piano è molto più gradevole, ma resta sullo sfondo di una storia destinata a finire male, come forse fanno tutte le storie del passato. I temi del ricordo, della nostalgia, e anche della delusione sono espedienti di sicuro effetto per un romanziere, ma bisogna svilupparli con originalità. Altrimenti è l'ennesima ripetizione di cliché deboli.
Quella di Carofiglio non è una scelta semplice: raccontare i meccanismi della giustizia dall'interno è arduo, perché inevitabilmente delude quella sete di verità e giustizia su cui Hollywood ha costruito le sue fortune. Carofiglio, già magistrato, ci ripete che i processi sono una somma algebrica di elementi che possono condurre molto lontano dalla
verità. La difesa, in particolare, deve ottenere il miglior risultato per il cliente, senza sostituirsi agli inquirenti. È un gioco delle parti in cui l'accertamento della verità è forse l'ultima delle preoccupazioni.
Insomma, siamo agli antipodi della letteratura americana in cui il procuratore incastra il colpevole con prove inoppugnabili, o quella in cui il cliente dell'avvocato protagonista è palesemente vittima di una congiura di poliziotti corrotti. Di bianco e nero c'è poco, quasi sempre il colore dominante è il grigio.
In conclusione, mi è piaciuto questo romanzo? Confesso che difficilmente proseguirò con la lettura di Carofiglio. Ho probabilmente gusti molto
mainstream, ma continuo a desiderare una letteratura poliziesca che sia più rassicurante della triste realtà. E il mio animo, nel fondo, è quello di un investigatore più che di un avvocato difensore. È colpa mia, ma questo genere di letteratura non fa per me.
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