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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Rebus sic stantibus

Sabato, la popolare rubrica di Michele Serra sul quotidiano La Repubblica ricordava un fenomeno sociologico che possiamo riassumere così: a forza di parlare di economia, avremmo voglia di regalare tutti i nostri averi e fuggire nella natura, alla ricerca di valori più sani del denaro. A dimostrazione che Serra è un ottimo osservatore, in questi giorni ho sperimentato lo stesso fenomeno, a volte anche sulla mia pelle. Ecco tre profili che ho incontrato recentemente: per risparmiare fastidiose acrobazie linguistiche, mi esprimerò al maschile.

 

  1. il giovane (almeno secondo i nostri parametri) precario, che ha la flessibilità scolpita nell'istinto, ed è rassegnato a (genu)flettersi per poter sopravvivere alle massacranti richieste di maggiore flessibilità. Questa fenomenologia è probabilmente in espansione, e temo che diventerà una conditio sine qua non nei prossimi anni.

  2. L'attempato, spesso pensionato, che ormai si nutre di pane e quotidiani economici. È sprofondato nel terrore di non poter pagare la spesa al supermercato, e poco valgono le rassicurazioni che la sua pensione non sarà toccata (almeno direttamente). Questa fenomenologia è comprensibile, ma si associa spesso al paradosso della politica anagrafica: dopo i 70 (anni di vita), scivoliamo inevitabilmente a destra. Il settantenne-tipo ha sempre votato PCI, eppure minaccia di impugnare un'arma perché è stata ripristinata la tassazione sulla prima casa. Peccato che, fino a ieri, lo stesso settantenne accusava il governo precedente di aver ridotto sul lastrico i comuni proprio con l'abolizione della tassa sulla prima casa... La stessa persona, sovente, è pronta a sfoderare accuse di incostituzionalità contro i provvedimenti di tracciabilità del denaro; in pratica, questa persona vorrebbe che l'onestà trionfasse per natura, dalla sera alla mattina. Tutto bello, ma sfugge un piccolo particolare: non funziona mai così. Penso che questa categoria di individui segua un comportamento assolutamente istintivo, soprattutto in una nazione dove la roba è considerata sacra ed inviolabile. Quindi: lo Stato deve scovare gli evasori, ma senza rompere le palle a me.

  3. L'uomo adulto (fra i trenta e i quaranta, che noi italiani chiamiamo giovane dal lunedì al mercoledì e uomo maturo dal giovedì alla domenica) che constata amareggiato: l'unica differenza fra un governo tecnico e una dittatura è che nel primo caso non ti uccidono se critichi il dittatore. Spesso, questo individuo è animato da idee molto progressiste e quasi rivoluzionarie; il desiderio di vivere in una società più giusta ed equa è prevalente sull'indignazione fine a se stessa. Questa fenomenologia sfocia troppo spesso nel nichilismo, poiché il concetto di società giusta appare sfuggente e troppo soggettivo.


 

A me pare di leggere, in filigrana, un comune atteggiamento, che io definisco “da soap opera”. Avete presente, per fare un nome, Un posto al sole, il popolare teleromanzo della RAI? In questi prodotti televisivi, qualsiasi situazione, dall'adulterio all'omicidio, è risolta con un abbraccio e una lacrimuccia. Poi basta, l'amore e il perdono trionfano su tutto. I tre fenomeni (in senso tecnico) descritti sopra penso che cerchino esattamente questa forma di perdono: non importa se per quarant'anni abbiamo mandato in pensione i funzionari dopo diciannove anni di servizio, o se abbiamo creduto di poter comprare due automobili e tre appartamenti accumulando mutui senza alcuna copertura finanziaria: vorremmo che qualcuno, una sorta di mamma, ci abbracciasse e ci dicesse che ci ha perdonato, e che non dovremo pagare le conseguenze.

Breve inciso: è evidente che il signor Giacomino o la signora Teresina – italiani pescati dal mazzo – non hanno particolari colpe; il mio discorso è sociale, non particolare. Incrociando vari dati statistici mondiali, sembra che l'Italia sia una delle democrazie più corrotte del pianeta. Avete letto bene? Democrazia corrotta: un'accoppiata letale, perché significa che la corruzione è complessivamente tollerata dagli elettori.

 

Chiusa parentesi, torniamo a noi. Si parlava del desiderio di perdono, tipico dei bambini che combinano qualche pasticcio. Ma, oltre le apparenze, noi italiani siamo un popolo di perdonatori: perdoniamo perfino i criminali più meschini, ci sentiamo Don Matteo in confessionale. “Li ha perdonati?”, chiede il cronista alla madre che ha perso un figlio per mano di un assassino o di un pirata della strada. Certo, c'è molto cattolicesimo in questa tensione verso il martirio: provate un po' a chiedere ad un protestante di perdonare un serial killer, e potrebbe mettersi a costruire una sedia elettrica con le proprie mani.

Ma credo che il perdono, per noi italiani, sia sempre una dimostrazione del medesimo desiderio di essere migliori del proprio vicino: visto come sono nobile, adesso che ho perdonato chi mi ha ferito? Tu no, sei un poveraccio, perché ti ostini a cercare giustizia invece di trovare pace nel perdono. Ecco, il cerchio si chiude: noi italiani siamo degli individualisti fin dalla nascita, tutta la nostra società è fondata sul modello dell'arrivista di successo. Non siamo tutti sfaticati, e anzi molti di noi si spezzano la schiena come somari; ma non lo facciamo perché stiamo costruendo una società equa, lo facciamo perché vogliamo la roba, sempre più roba. Per noi, e gli altri... che si arrangino!

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