C'era una volta un matematico che acquistava
il manifesto. Ero io. Siete stupiti? Ho troppo la faccia del conservatore per leggere certi quotidiani?
Forse avete ragione: da qualche anno lo compro solo di domenica, perché ci sono le pagine di cultura; per il resto ritengo che l'epoca d'oro sia finita con l'abbandono (e talvolta il passaggio a miglior vita) dei fondatori e collaboratori storici.
Ma non è di questo che voglio parlare. La scorsa settimana il sito web del manifesto è cambiata, e la novità più eclatante è che gli abbonati non possono più scaricare il giornale in formato PDF da leggere su tablet e smartphone. D'ora in poi potranno sfogliarlo solo online, cioè collegati ad internet e con un browser (o un'applicazione) che supporta il formato Adobe Flash. La pagina di introduzione alle nuove regole ribolle di critiche esplicite, e francamente sono comprensibili: scaricare il giornale e poi leggerlo in treno o in autobus è un piacere che gli abbonati non potranno più godersi.
Ma perché sono state introdotte queste novità? La risposta della gerenza del quotidiano è stata chiara: per impedire la diffusione delle cosiddette copie-pirata. Insomma, dovevano impedire che qualcuno acquistasse il file PDF del giornale e lo mettesse a disposizione gratuitamente su uno dei tanti siti per lo scambio di file multimediali.
E finalmente tocchiamo il cuore del discorso. Innanzitutto, mi permetto di dubitare che il danno arrecato dalla diffusione di una copia dell'unico quotidiano che si definisce orgogliosamente comunista possa essere importante: l'utente medio magari scarica un giornale generalista, mentre legge un giornale comunista solo se tale si sente. E quasi certamente è fiero di pagare il prezzo della copia, essendo sostenitore di un'ideologia politica forte e ormai minoritaria. Ma ammettiamo pure che il danno economico per il collettivo del manifesto fosse consistente.
A mio avviso, arriviamo al più macroscopico paradosso dell'editoria elettronica: se compro un quotidiano digitale e lo faccio scaricare da Internet sono un bieco pirata. Se compro la versione cartacea e la lascio sul sedile del tram o sulla panchina dei giardini pubblici sono un romantico diffusore di informazione e cultura. Si dirà che sono i numeri a fare la differenza, perché i potenziali fruitori della copia cartacea sono una frazione piccola dei potenziali fruitori del file digitale. E va bene, concediamo anche questa giustificazione, che tuttavia lascia scoperta la questione di principio e bada solo alla questione pratica.
L'aspetto della caccia alle streghe della pirateria che più mi colpisce, comunque, è la difficoltà a rapportarsi con la realtà mutata. Nonostante gli sforzi e le belle parole, i siti internet dei principali (e non principali) quotidiani italiani resta una versione abbreviata dell'edizione cartacea. Spesso mi capita di leggere i titoli sui siti, e di scoprire che mio padre, a casa, ha letto le stesse notizie su carta. Non sono la persona giusta per impartire lezioni o suggerimenti, ma è piuttosto evidente che il mondo dell'informazione italiana sta fraintendendo le opportunità dei mezzi di comunicazione digitale.
Sono tutti lì, con la bava alla bocca, a combattere contro la presunta pirateria dei PDF da cui probabilmente hanno stampato le copie giunte in edicola; ma i contenuti restano sempre troppo sovrapposti.
Mi è stato raccontato un simpatico aneddoto: un matematico italiano, subito dopo aver pubblicato un prestigioso e costoso volume scientifico con un editore di fama internazionale, ha caricato nei principali circuiti di "pirateria digitale" il suo libro. Una sorta di auto-pirateria, insomma. E sapete perché? Perché lo reputava il modo migliore per far pubblicità al suo prodotto. Nessuno acquista a scatola chiusa un tomo che costa più di 100 euro in base alle frasi in quarta di copertina. Trattandosi poi di un libro destinato comunque ad una platea di specialisti, dunque foriero di scarso reddito da diritti d'autore, l'autore ha preferito la pubblicità al presunto danno economico.
Si tratta di un caso limite, né sarebbe corretto imporre agli autori di opere d'ingegno di lavorare gratis (ma le riviste scientifiche non corrispondono un centesimo né agli autori delle ricerche pubblicate, né ai revisori scientifici che dovrebbero garantirne la qualità). Eppure mi sembra che questo collega abbia capito gli effetti della rivoluzione digitale meglio dei tutori dell'ordine digitale che chiedono (e ottengono) il sequestro dei siti pirata.
Da tempo è quasi impossibile trovare un negozio di dischi, e anche le librerie si stanno lentamente estinguendo. La mia opinione, che ammetto essere priva di basi statistiche o scientifiche, è che sono solo cambiati i modi di accedere alla cultura, non il tasso d'interesse per essa. Insomma, dubito che la gente abbia smesso di ascoltare musica o di leggere romanzi: solo che ha capito le potenzialità di Internet molto prima degli autori delle opere dell'ingegno.
Come se ne esce, senza scadere in un nuovo maccartismo informatico e tutelando le giuste rivendicazioni di cantautori e scrittori? Non lo so, proprio non ne ho idea. Anch'io ho pubblicato un libro (di matematica), ma non riesco a odiare quelli che lo fotocopiano per studiarlo. Quelli che lucrano sulle fotocopie già mi stanno leggermente sulle scatole, se devo essere sincero.
Di sicuro la repressione del
file sharing è una battaglia di retroguardia destinata a scarso successo. Come diceva Einstein, è impossibile risolvere un problema con le stesse tecniche che l'hanno creato: bisogna inventare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. E magari scopriremo, a tempo debito, che andrà meglio per tutti.
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