Poche settimane fa ho letto un tweet di Mauro Corona dedicato alla morte di Rolly Marchi. Non avendo mai sentito questo nome, ho iniziato ad informarmi e ho scoperto che il Corriere della Sera mandava in edicola il suo libro
Le mani dure nella collana
Biblioteca della montagna. Ho preferito acquistare l'edizione originale Vivalda, e ho iniziato presto a leggerlo.
Rolando "Rolly" Marchi è stato uno scalatore e alpinista, ma i più lo ricordano nelle vesti di giornalista e commentatore televisivo di eventi sportivi. È stato il fondatore del celebre
Trofeo Topolino di sci alpino. Dalla fine degli anni Cinquanta ha intrapreso la carriera di scrittore e romanziere, con risultati spesso premiati dalla critica. Purtroppo sembra che gli altri libri di Marchi siano difficilmente reperibili.
Dopo aver letto la bella prefazione all'ultima edizione, mi aspettavo il classico romanzo di montagna: storie semplici, valli, baite, avventure spensierate, la natura. Invece ho sofferto
fisicamente la lettura, perché questo è un racconto impregnato di morte dalla prima all'ultima pagina.
I protagonisti sono alcuni giovani di Trento, che nell'immediato dopoguerra scoprono il piacere delle scalate e fondano una scuola di alpinismo. Ripercorrono vie celebri, ne cercano di nuove e imbattute. Fino alle fatali tragedie che gelano il sangue: il primo compagno muore per una caduta dalla parete, il secondo probabilmente di infarto, a causa dello sforzo per cercare di mettersi al riparo durante una difficile ascensione.
Marchi non ci risparmia il dolore devastante di chi vede morire un amico senza poterlo aiutare, né tace l'angoscia dei parenti che attendono il ritorno a casa. L'ultima parte del libro è terribile: il tentativo di aprire una via nuova in Brenta, sesto grado superiore, la furia degli elementi, l'ultima morte atroce di un rocciatore incenerito dal fulmine a pochi metri dalla cima.
Mentre leggevo, mi sembrava di sentire le urla dei protagonisti, il loro terrore, la grandine che cadeva come proiettili sulla parete nuda della montagna, il vuoto sotto i piedi congelati.
Ho chiuso il libro con un senso di malessere fisico, perché proprio questo vuole l'autore: a volte nemmeno il rispetto per la montagna è sufficiente a salvare l'uomo che cerca di spingersi in alto. Bisognerebbe tornare indietro, ammettere la propria debolezza; ma pochi lo fanno, scambiando forse la saggezza con la mancanza di coraggio. Le
mani dure sono le mani bruciate dal sole e dal gelo, tagliate dagli speroni di roccia e segnate dall'attrito delle corde.
Un libro bellissimo e spaventoso, come le montagne.
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