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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament...

Ladri di tempo

In questi giorni sono ancora frastornato dalla nostalgia delle ferie. L'idea di trasferirmi in montagna e di aprire un Bed and Breakfast con annessa fattoria mi suggestiona ancora. Per questo le mie riflessioni scivolano verso toni malinconici.
Ieri pomeriggio, su Facebook, mi sono imbattuto in una polemica su un esercizio di grammatica latina preparato dal MIUR. Non riporto qui i dettagli, che sarebbero fuori luogo. Il fatto però è che la faccenda mi ha instillato uno strisciante disagio.
Un trillione di anni fa, quando andavo al liceo, ero davvero bravo in latino. Avrei potuto risolvere l'esercizio a occhi chiusi, mentre ieri ho sbagliato clamorosamente. Nulla di sconcertante, visto che non tocco un dizionario o una grammatica latina dal 1993.
Tuttavia mi sono sentito frustrato, per aver buttato il 90% delle mie conoscenze della lingua romana. Ho ripensato a tutto quello che ho fatto in questi diciannove anni: mi sono laureato in matematica, ho studiato analisi, geometria, algebra (poca), fisica. Poi ho preso un dottorato in analisi funzionale e sono diventato un ricercatore specializzato in metodi variazionali applicati alle equazioni differenziali ellittiche non lineari.
Detto così, sembra magnifico; in realtà ho imparato tanto e dimenticato tantissimo. Non saprei imbastire un discorso sulla poesia bucolica del 1600, né saprei parlare delle sizigie. Tutte cose che, a diciannove anni, sapevo fare e anche piuttosto bene.
Insomma, ma siamo proprio sicuri che nella vita ricordiamo più di quello che dimentichiamo? Ovviamente non in senso assoluto, ma restringendo l'attenzione alle capacità intellettuali e alle conoscenze culturali.

Qualcuno dirà: e perché non riprendi in mano la grammatica latina, quella giallina e incartapecorita che conservi ancora nello scatolone? Non lo faccio perché capisco di non averne il tempo. Ho sempre odiato questa frase, che troppi pronunciano come scusa per non fare un'attività sgradita.
Invece no, proprio non avrei il tempo; dovrei sottrarre ore al mio lavoro, e questo non è etico. E poi, domanda inquietante, perché dovrei? Per vantarmi di ricordare le coniugazioni dei verbi deponenti? In altri termini: quale sarebbe lo stimolo?

Mentre tornavo a casa in treno, ieri sera, stavo pensando che molte volte ho dato il massimo per avere una sorta di riconoscimento. Studiavo per avere buoni voti (e anche perché mi piaceva, certo), prendere un bel voto in un'interrogazione era motivo di orgoglio. Anche oggi, quando un mio articolo scientifico è accettato per la pubblicazione, ne vado fiero. Tutto il resto è un hobby, che non può diventare uno stress gratuito.

Ma forse sono tutte scuse: l'unica verità sperimentale è che mi hanno rubato il tempo. Essere adulti significa non avere più tempo per fare il superfluo, perché le giornate sono impegnate dai cosiddetti doveri. Ricordo la noia fanciullesca, quei pomeriggi in cui "non sapevo che cosa fare". Mi arrabbiavo, volevo fare qualcosa ma non sapevo che cosa. Adesso li rimpiango, almeno un po'.

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