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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament...

No rehearsal

In questa mattina di domenica, addì 8 giugno 2014, faccio pubblicamente una confessione: di solito non ripeto i seminari, nel senso che non faccio le "prove" qualche giorno prima. Se state esclamando "Ah, adesso si spiega tutto!", e ci potrebbe stare, probabilmente il resto di questo post vi interesserà poco.

Sì, dicevo: ovviamente preparo le slides del mio talk (ma come miiii.... si dice in italiano?). Però non mi metto davanti ad un muro a fare le simulazioni. Forse sarebbe saggio, forse sarebbe professionale. Però non lo faccio.
Perché? Perché mi mette una tristezza infinita. Innanzitutto, l'idea di andare davanti al pubblico a recitare una specie di litania imparata a memoria è veramente mortificante. E poi un seminario è un'attività tutt'altro che individuale: basta una domanda inaspettata per farci perdere il filo del discorso, e allora bisogna saper interagire con le persone che ci stanno ascoltando. Se mi preparassi un discorso rigido, rischierei di fare la parte dello studente che ha imparato a memoria senza capire. Queste cose le può fare il presidente della Repubblica la sera del 31 dicembre, tanto nessuno alzerà la mano per interromperlo.

E poi, ripeto, mi sento sciocco ad organizzare i minuti di un seminario a tavolino. Mi ricorda gli (innumerevoli) tentativi di attaccare bottone con le ragazze: io dico questo, lei risponde quello, poi io aggiungo quest'altro. Ovviamente queste fantasie cadono a pezzi alla seconda battuta, e lì è fondamentale l'improvvisazione. Se dici "ciao" aspettandoti un "ciao", ma lei dice "togliti di torno, deficiente", è matematicamente certo che puoi stracciare il copione che avevi in mente.

Scherzi a parte, so di essere una persona insopportabile, che ama non solo i contenuti dei seminari ma anche l'abilità del conferenziere. Dopo aver fatto un seminario ho il classico momento di autodistruzione, in cui mi pento di ogni singola parola pronunciata. Tendo ad essere molto severo con me stesso, e forse lo sono anche con gli altri.
E poi tendo a fare seminari piuttosto "leggeri", cioè privi di troppi dettagli tecnici. Ho ricevuto anche qualche amichevole rimbrotto per questa abitudine, ma non mi convinco che sia così sbagliata. Quando leggiamo una dimostrazione complessa, magari importante ma piena di tecnicismi, dobbiamo prendere appunti, fare qualche calcolo: dobbiamo capirla. Come possiamo pretendere di incastrare l'angosciante sketch of the proof nei sette minuti restanti prima che il chairman ci interrompa?

Insomma, posso dire che il mio seminario ideale è quello che mi faccia pensare "Che problema interessante, anch'io sarei capace di lavorarci!". Purtroppo il modello dominante, e non fatico ad immaginarne le ragioni, è il seminario che vorrebbe far esclamare "Azz, questo ha risolto completamente un problema inavvicinabile".
I migliori conferenzieri non hanno paura di ammettere l'incapacità di trattare un caso più generale o di risolvere il problema sotto ipotesi meno restrittive, perché sanno che tutto questo fa parte della vita degli scienziati.

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