Arrivato nelle librerie all'inizio di dicembre 2013,
La voce degli uomini freddi è l'ultima fatica dello scrittore-alpinista-scultore Mauro Corona, che
qui introduce di persona l'opera.
Ho già scritto ripetutamente che la produzione di Corona si divide essenzialmente in due filoni: quello memorialistico e quello narrativo. Che poi ci siano sovrapposizioni e contaminazioni, non deve stupire. Questo romanzo appartiene al secondo filone, e non casualmente è stato catalogato fra le favole. Certo, questo sperduto villaggio fra le montagne, dove nevica tutto l'anno e dove la vita è agra ed
erta, questi personaggi eterei che parlano un idioma misterioso, tutto insomma assomiglia ad una storia fantastica.
Mille anni (e una notte) di storia si dispiegano nelle pagine fra accenni più o meno espliciti alla storia reale: fanno capolino le guerre, ad esempio, descritte però come tuoni lontani che solo in ultimo turbano l'equilibrio degli uomini freddi. E, immancabilmente, c'è qualcuno cui va stretta la fatica del villaggio, e cerca una nuova vita nel mondo civilizzato (ma quale sarà la vera civiltà, viene da chiedersi?): per costoro, forse un po' banalmente, solo infelicità e odio.
Le ultime pagine sono una sceneggiatura della tragedia del Vajont; anche le date (da settembre al fatidico 9 ottobre) coincidono con quelle del 1963, e naturalmente è una diga artificiale in cui cade la montagna a cancellare (quasi) ogni traccia del paese degli uomoni freddi. Solo quattro persone scampano al massacro, figure invisibili che perpetuano nel silenzio una stirpe ormai distrutta dalla voracità degli uomini potenti.
Fin qui la storia, che si arricchisce di altre figure interessanti e commoventi. Come giudicare il libro? Con difficoltà devo ammettere che non mi ha entusiasmato. Mauro Corona si cala nei panni di quei vecchi sapienti cui gli uomini freddi chiedono consiglio nei momenti di difficoltà, e il tono scivola talvolta nel rimbrotto ripetitivo che appartiene a quasi tutti gli anziani. Lo scrittore è fatto così, basta guardare le sue interviste. Però troppe
prediche rischiano di stancare il lettore.
La scrittura è, al solito, asciutta e composta da frasi brevi. Corona usa pesantemente la strategia dell'anticipazione dei colpi di scena: è il tipico escamotage per incuriosire chi legge a proseguire. Ma scrivere, subito in coda all'anticipazione, "Ma bisogna andar per ordine" è come dire "Dormi, è ancora presto" al bambino che si sveglia in piena notte: c'è il rischio che la curiosità resti soffocata.
Siamo, a mio giudizio, assai lontani dalla produzione intrigante e suggestiva del primo Corona, quello dei racconti e delle memorie paesane. Non sto affatto dicendo che la vena si sia esaurita, giacché il recente
Venti racconti allegri e uno triste ha dimostrato l'immutata
verve dello scrittore. È solo un parziale cedimento ad un genere che forse non è pienamente nelle corde dell'eclettico ertano.
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