Ho appena finito di leggere un bell'articolo di Maurizio Bettini sul numero odierno di Repubblica. Sembra non esserci una versione web, dunque riassumo la materia in poche parole: sostiene Bettini che la discussione della tesi di laurea sia diventata ormai una specie di festa da organizzare quasi come un matrimonio, fra inviti, abito, scarpe, rinfresco, eccetera. Dallo stesso articolo apprendo che alcuni Magnifici Rettori abbiano già promulgato regolamenti specifici contro la degenerazione dei festeggiamenti post-laurea; la scelta che mi sembra più interessante è quella di Cà Foscari (Venezia), dove il conferimento del titolo di studio avviene addirittura in piazza S. Marco, con una
lectio magistralis di qualche scrittore famoso. Tutti insieme, anche 800 alla volta, i neo-dottori si ritrovano per ufficializzare la fine degli studi accademici, senza eccessi né danni al patrimonio mobile ed immobile. Mi sembra un'idea degna di approfondimento.
Comunque, pur frequentando raramente le commissioni di laurea, frequento quotidianamente il dipartimento, e dunque mi imbatto nelle schiere dei laureandi di grandi speranze. E ogni volta ripenso con nostalgia a quell'11 marzo del 1998, quando presentai la mia tesi nella sala del consiglio comunale di Como. Mi sono laureato nell'allora seconda facoltà di scienze dell'Università degli Studi di Milano (la Statale, per i lombardi), e la sede era alquanto scalcagnata. Dunque l'abitudine era quella di noleggiare la sala comunale per le proclamazioni. Non eravamo tanti, forse una decina di ragazzi. Io sembravo l'orfanello di passaggio: felpa grigia e verde, immancabili pantaloni jeans, e - udite udite!- scarponi da trekking. Le uniche scarpe non da ginnastica che possedevo. In effetti tendo a calzare scarpe sportive soprattutto per una questione di benessere, visto che da ragazzo ho sofferto di tendinite e fascite e non sopporto le scarpe con la suola rigida e poco ammortizzata. Però ammetto che sembravo una specie di Mauro Corona (lo scrittore che va in televisione con gli scarponi da montagna) uscito in ritardo da casa. Ed ero anche arrivato a Como in autobus.
Gli altri laureandi erano più eleganti, qualcuno con la cravatta; ma niente di clamoroso o sguaiato. Le ragazze vestivano con sobrietà, considerando che marzo a Como può essere decisamente freddo.
Da quando lavoro in università confermo le osservazioni di Bettini: i laureandi danno mostra di una ricercatezza particolare degli abiti e dei preparativi. Alcuni fanno confluire l'intero parentame vociante, nonni e zii che non si capisce se abbiano tolto dall'armadio l'abito delle nozze o quello per i funerali. Le fanciulle, ma non tutte, sembrano pronte per un provino a Hollywood. Fino al giorno prima le vedevo nelle aree di studio, magari in tuta da ginnastica; oggi calzano tacchi da dodici centimetri e trucco professionale. Qualcuna sembra a disagio a girare in minigonna senza calze nel mese di novembre, ma questo impone la moda.
Come avverte Bettini, non c'è sostanzialmente nulla di sbagliato in tutto ciò. È ragionevole che quello della laurea sia un giorno speciale, e come tale può essere vissuto. Va bene rischiare un legamento della caviglia (i maschi, in questo, sono avvantaggiati) o un'infreddatura, ci mancherebbe.
Ma mi sembra altrettanto vero quello che il giornalista sottolinea: non sembra più che la laurea faccia da spartiacque tra un mondo giovanile e un mondo da adulti. La sera della mia laurea, francamente, mi sentivo triste, perché sentivo che la spensieratezza dello studente universitario non sarebbe tornata mai più. Dovevo cominciare a organizzare la mia vita, a guadagnarmi uno stipendio, a pianificare i miei desideri e il futuro.
Come nel bel film
Giovani, carini e disoccupati (Reality bites, 1994), lasciare l'università è un passo difficile e malinconico. Non vorrei che fosse, per i ragazzi del 2014, solo una raccolta di fotografie da mettere su Facebook.
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