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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament...

Com'è piccolo, il mondo

Stavo leggendo "il manifesto", che ha la spiacevole abitudine di presentare in rapida sequenza tutte le ingiustizie del giorno prima. Sopraffatto dall'angoscia per i civili uccisi in Libia, i morti giapponesi, i migranti sfruttati, il declino della cultura e perfino per il derby Milan vs Inter, ho iniziato a fantasticare.
Immaginavo di spegnere tutte le fonti di informazione: televisione, giornali, radio e internet. Come sarebbe la mia vita? Probabilmente mi alzerei tutte le mattine, andrei in università, mi metterei a dimostrare teoremi e a leggere libri o articoli, e penserei che il più drammatico dei problemi è il cantiere del lungolago di Como. O forse la ricostruzione del palazzetto dello sport di Cantù. In pratica, poco sarebbe diverso dalla vita di mio nonno cento anni fa in Valganna.

D'altronde, dobbiamo ammetterlo, la maggioranza schiacciante degli individui non vive personalmente gli effetti delle tragedie che ci descrivono i mezzi di comunicazione. So bene che a Cantù, dal 1990 ad oggi, il numero degli stranieri è aumentato; però sarebbe difficile trovare una ragione per drammatizzare questa circostanza. Quello che intendo dire è che c'è una differenza abissale fra la consapevolezza che il mondo è devastato dalle tragedie e la necessità di farsene carico una per una.
Con un colpo di mouse, vediamo le immagini delle stragi in Afghanistan, leggiamo i bollettini dello tsunami in Giappone, o la confessione dell'assassino dell'Olgiata. E subito ci sentiamo accerchiati dal pericolo, dal panico che puntualmente viene strumentalizzato dai partiti politici per garantirsi un poltrona. Venti anni fa avevamo paura degli africani che vendevano tappeti e cocco fresco, poi sono arrivati gli albanesi, poi i rumeni, ora i profughi tunisini. Io nel 1981 avevo il terrore delle divisioni, ma poi sono diventato grande; le paure si affrontano usando la testa, sebbene a volte sembri più facile ricorrere ad altre parti anatomiche.

Ma forse siamo tutti ubriachi di informazione. Ci servono davvero due quotidiani, tre telegiornali, dozzine di siti internet da assorbire compulsivamente come spugne sintetiche? Per tante ragioni, il mondo è diventato troppo piccolo; dovremmo fermarci a meditare, per recuperare un barlume di ragionevolezza. Perché sarebbe impensabile isolarsi in un eremo, ma è altrettanto pericoloso lasciarsi sopraffare dalla paura globale.

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