Ogni volta che spiego ad un amico o un parente che talvolta ricevo un compenso aggiuntivo per aver tenuto corsi oltre un certo monte di ore, la reazione è: - Ma non ti pagano per quello?
Un caso vagamente paragonabile è emerso recentemente sulla stampa comasca, quando due dirigenti del comune di Como hanno avuto il premio di produttività per alcuni progetti presentati e attuati nell'ambito dei rispettivi uffici. È subito montato lo scandalo, perché "sono già pagati".
Ovviamente non parliamo dell'aspetto di legittimità, che solitamente è scontato (ci sono leggi e contratti di lavoro che sanciscono queste possibilità di retribuzione integrativa/premiale). Resta invece sul tavolo la questione sociologica: perché, mi chiedo, i più ferventi accusatori sono quasi sempre lavoratori del settore privato, ampiamente sottopagati?
Quando mi azzardo a ribattere che i miei doveri professionali non comprendono l'obbligo di espletare le mansioni che hanno maturato il compenso integrativo, parte la filippica: - Ma io, che lavoro nel privato, devo fare tutto quello che mi dice il capo, altrimenti perdo il lavoro!
Ecco: perché così tanti lavoratori italiani (di affermazioni simili sono pieni i commenti sui siti di informazione) si vantano di essere praticamente schiavi del datore di lavoro? Non ne prendono atto, ma esigono che tutti i lavoratori diventino altrettanto schiavi.
Questo atteggiamento fa il paio con un luogo comune sulla bocca di tanti: la rovina dell'Italia sono i sindacati. Se Marchionne lo dice in televisione, nesusno si stupisce. Ma se le stesse parole escono dalla bocca di operai e dipendenti, allora c'è qualcosa di sbagliato.
Anche al netto della (presunta) necessità di riforme del ruolo sindacale, e in modo speciale della necessità di tutelare i lavoratori meno garantiti dalle ultime riforme del lavoro, scandalizza il disprezzo di fondo.
Nel terzo millennio, una certa mentalità sociale rimpiange la servitù della gleba. E quella sinistra accoppiata di mutismo-e-rassegnazione che è l'anticamera del sottosviluppo.
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