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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament...

Grande bellezza?

Quindi, come milioni di italiani, ieri sera ho abboccato all'amo gettato dalla televisione di Arcore, e mi sono predisposto a guardare il film La grande bellezza. Sapete com'è, dicono che abbia vinto un premio Oscar, forse vale la pena di dargli un'occhiata.
Centoquarantadue minuti di film, e, come direbbe il rag. Ugo Fantozzi, mi è parsa una cag*** pazzesca. Non sto dicendo che sia un brutto film, ma che a me non è piaciuto. Proprio per niente.
Ora, non sono un fanatico di Roma, che trovo artisticamente troppo "pesante" e confusa; non per niente sono nato in un ambiente dove lo stile romanico è privilegiato, mentre il barocco non ha lasciato tracce significative. Poi c'è questo Servillo, Toni e non Peppe, che è peggio del prezzemolo. E  recita con tale affettazione da far saltare i nervi ad un santo. Per non parlare del patetico Carlo Verdone, fuori ruolo e insignificante.

E infine ero prevenuto per questo approccio italico all'insegna del provincialismo. Ora, i film americani suggeriscono che "siamo i migliori del mondo"; quelli francesi che "eravamo i migliori del mondo". I film italiani godono nell'urlare che "facciamo schifo e non c'è speranza".
Prendiamo, ad esempio, Nebraska: la critica alla società rurale del midwest è piuttosto esplicita, eppure resta sempre l'orgoglio di essere così, nel bene e nel male. Perché alla fine il bene vince sempre. Sarà banale dire che se ti senti perdente, allora lo sarai; però questo gusto nostrano per l'autocommiserazione ha stancato. È una settimana che leggo filippiche sullo stato della città di Roma, dal regista famoso al pizzicagnolo pare che la colpa sia sempre della politica.

Sono sicuro che il territorio e il patrimonio artistico italiano meritino un'attenzione e una cura infinitamente superiori a quelle che vediamo, ma non mi sento di dire che altrove siano rose e fiori. Altrove fanno, semplicemente. Gli amministratori sono consapevoli che non esiste la scelta migliore, ma esistono tante buone scelte; scelgono e fanno. Noi italiani perseguiamo l'ottimo, forse come alibi per non fare il bene. E ci ritroviamo ad essere orgogliosi di un film che ci fa apparire come deficienti e magari anche un po' delinquenti, mandiamo sul palco il solito intellettuale che dice "Denghiu veri macc". Poi tutti a suonare il mandolino e a mangiare spaghetti.

Il punto non è il coraggio di mettere in luce i propri difetti, ma quello di riconoscerli come tali.

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