In questi giorni, nella mia università, si è animato un interessante dibattito su un argomento apparentemente tecnico: il numero di appelli d'esame offerti ogni anno. La discussione mi ha fatto riflettere, e cercherò di raccontarvi il mio punto di vista.
Per cominciare, diciamo che il
regolamento didattico di ateneo provede almeno cinque appelli (all'anno,
of course) per ogni insegnamento erogato. Che vuol dire? Che ogni docente deve garantire almeno cinque date nell'intero anno accademico nelle quali gli studenti potranno sostenere l'esame relativo al corso insegnato. Voglio precisare che si tratta di un numero
minimo, giacché alcuni Consigli di Coordinamento Didattico (in breve CCD) decidono legittimamente di offrirne di più. Il corso di laurea triennale in biotecnologie ne prevede sette.
Poiché questo è un periodo di profondi cambiamenti nella struttura universitaria, qualche docente ha proposto di eliminare del tutto il vincolo del numero minimo garantito e di lasciare ai singoli CCD (o dipartimenti, come prevede la legge di riforma del 2010 che sta diventando efficace in questi mesi) la scelta. In pratica, questi docenti consentirebbero di avere un corso di laurea in, diciamo, Matematica dove sono proposti tre appelli all'anno; e un corso di laurea in, diciamo, giurisprudenza, dove gli studenti possono tentare magari dieci volte di
passare l'esame.
Personalmente non sono d'accordo, ma capisco che le peculiarità dei diversi corsi di studio possano comportare esigenze diverse in sede di valutazione. Mi piacerebbe che il vincolo minimo restasse appannaggio del regolamento di
tutto l'ateneo, ma non mi straccerei le vesti se la responsabilità scivolasse sui dipartimenti.
Fin qui tutto bene. La discussione si è invece accesa quando alcuni docenti hanno proposto di offrire due, o al massimo tre, prove d'esame: una subito dopo la fine dell'insegnamento, una prima delle vacanze estive, e (forse) una sessione di recupero autunnale. In molti Stati questa è la prassi; pertanto, deducono questi docenti con un pizzico di italica esterofilia, dobbiamo adeguarci per rendere la nostra università virtuosa come quelle straniere.
Oddio, tutta questa virtù delle università straniere mi sembra sopravvalutata, ma pazienza: va di moda gridare che l'università italiana è da buttare. Preferisco quindi offrire alcune riflessioni di natura meno politica e più tecnica.
Innanzitutto, ammetto di non vedere un grave problema. Si dice che tanti studenti restano indietro e purtroppo si ritirano. Con un lieve cinismo, potrei obiettare che il ruolo dell'università non è necessariamente quello di fare i saldi del titolo di studio. Se una certa percentuale di immatricolati non riesce a proseguire con successo gli studi, magari è solo perché questi immatricolati hanno sbagliato strada. Capita, non è una tragedia, e soprattutto non è colpa del sistema universitario. Per scherzare un po', credo che non riuscirei mai a diventare un buon chirurgo. Che cosa dovrebbe fare la facoltà di medicina? Tirarmi dietro una laurea per forza?
Chiusa la parentesi ironica, è pur vero che, da insegnante di un corso per matricole, riscontro un fenomeno spiacevole: pochissimi studenti riescono a studiare con continuità
in tempo reale. Che significa? Significa che quasi nessuno riesce a studiare entro pochi giorni, o anche solo rivedere gli appunti, quello che ho spiegato durante la settimana. L'atteggiamento prevalente è quello di seguire le lezioni (e qualche volta anche no) ora per preparare l'esame fra qualche mese.
D'accordo, riconosco che il corso di matematica non è nelle fantasie più divertenti di uno studente di biotecnologie; forse i miei studenti cercheranno di studiare subito le materie più legate alle loro inclinazioni professionali. Ma vorrei che il mio discorso forse più astratto. Il fatto è che è più facile superare un esame se il corso è stato seguito con partecipazione e studio progressivo. Per quelli della mia generazione era naturale: gli insegnamenti erano quasi tutti annuali (da ottobre a maggio), e il tempo per studiare c'era. E infatti, se ben ricordo, quasi nessuno offriva sette prove d'esame annuali: ce n'era una a giugno, una a luglio, e una in autunno. Qualche volta c'era una prova invernale, per chi era proprio rimasto indietro.
Per questo ho la sensazione che la battaglia per togliere alcune date d'esame sia sostanzialmente una battaglia nostalgica. Pradossalmente la combatterei anch'io, ma ad una condizione: che si cancellassero questi corsi
zippati e frammentati in tre mesi, e si tornasse ai corsi su due semestri, almeno per il primo anno di laurea. Poiché temo che questa prospettiva sia priva di speranze, personalmente manterrei un numero più consistente di appelli. Il rischio, altrimenti, è quello di andare esattamente nella direzione opposta a quella voluta: soltanto gli studenti eccellenti otterrebbero una laurea nei tempi previsti.
Ecco che siamo giunti, secondo me, alla vera domanda: che cosa vuole essere, l'università italiana? Una fucina di menti brillanti, destinate ad un futuro di successi scientifici? Oppure il luogo di scolarizzazione superiore per antonomasia, che innalzi il numero dei laureati?
Io penso che una nazione avanzata come la nostra (vabbé, facciamo finta di crederci) dovrebbe offrire entrambe le possibilità: università e centri di studio per i migliori, ma anche
colleges per chi desidera migliorarsi senza essere stritolato dalla competizione spietata. Questo accade regolarmente negli USA, dove le giovani menti più brillanti si guadagnano (con sforzi notevoli) una borsa di studio a Princeton, al MIT, all'UCLA; e tanti giovani, volenterosi ma meno dotati e magari lavoratori, studiano per diventare migliori senza essere espulsi al primo esame fallito.
A me piacerebbe che questo fosse l'obiettivo del sistema universitario italiano. Ma anche noi, che oggi insegniamo all'università e facciamo ricerca, dobbiamo forse rimettere i piedi per terra.
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