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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Gli stradini e il titolo di studio

Ieri stavo leggendo un magazine allegato al quotidiano La Repubblica. Due articoli mi hanno colpito per la simultanea vicinanza e lontananza degli argomenti.

Nel primo, un opinionista raccontava che alcuni stati americani intendono sperimentare l'anno scolastico prolungato. In poche parole, la tesi è che tre mesi di vacanze estive siano eccessive, e pertanto occorre suddividere le settimane di riposo lungo l'intero anno solare. Sempre a scuola, eccetto qualche breve pausa di una settimana qua e là. Quali sarebbero i vantaggi? Ad esempio, sostengono gli entusiasti, non sarebbe più necessario rieducare allo studio i ragazzini dopo le lunghe vacanze. Questo permetterebbe una rivoluzione: il sistema scolastico potrebbe dedicarsi ad elevare la qualità di tutti gli studenti, mentre l'attuale calendario spinge soprattutto ad evidenziare i meritevoli e ad abbandonare i meno dotati. 

Questa opinione è molto affascinante, ma anche scivolosa. Lo stesso giornalista citava una battuta spietata del banchiere J. Rockefeller, che cito a memoria:

"Non serve far studiare proprio tutti; in fondo, l'America ha un gran bisogno di bravi stradini." 

È vero, è proprio una frase cattiva. Però potrebbe avere un minimo di verità. In primo luogo, occorre scoprire se, quando entriamo nel mondo scolastico, siamo tutti allineati ai blocchi di partenza. In termini più crudi: abbiamo tutti le medesime potenzialità? Basta un buon insegnante per ottenere un bravo studente? Esistono davvero gli studenti che non ci arrivano?

Capite bene che sarebbe inutile proseguire l'esperimento, se la risposta alle precedenti domande fosse negativa. Se da una rapa non possiamo cavar sangue, meglio continuare ad usarla come rapa. Non so se mi spiego.

In secondo luogo, l'essere umano è un animale fortemente competitivo. Il cursus honorum scolastico non fa eccezione: andare bene a scuola, ottenere risultati di eccellenza, essere un bravo allievo stimola lo spirito di competizione dell'allievo. Imporre per legge che tutti gli studenti debbano laurearsi potrebbe frustrare le aspettative: in un mondo dominato dal criterio del censo, possiamo sopportare che nemmeno le doti intellettuali siano motivo di diversificazione? È lecito frenare i migliori per aspettare (magari all'infinito) i peggiori?

Sono domande piuttosto ciniche, ma anche comprensibili. Quando prendevo 9 in latino, ero molto fiero del mio lavoro. Quando prendevo 10 in fisica (in quinta liceo), lo ero meno: il professore era alquanto generoso, e prendere 9 era il minimo sindacale. Capite bene che non avevo tante motivazioni per dare il massimo in fisica, se potevo raggiungere l'obiettivo con poco sforzo. È una lezione che ho imparato bene da quando insegno: il massimo dei voti è un traguardo duro ed impegnativo, e non può essere altrimenti. Regalare voti alti semplifica la vita, ma non penso sia educativo.

Qual era il secondo articolo di cui ho scritto all'inizio? Era un'intervista allo scrittore Stephen King, che tutti conosciamo per i romanzi e i film tratti da essi. King, ora sessantenne, raccontava che aveva appena terminato l'università, ma non riusciva a trovare lavoro come insegnante. E così fece il benzinaio, l'operaio, l'uomo di fatica. Con il senno di poi, penso proprio che meritasse un posto da professore di letteratura, visto che ebbe un enorme successo di pubblico e di critica dopo un paio di anni. Eppure ebbe la forza di rinunciare temporaneamente al lavoro per cui aveva studiato, e si dedicò a lavori che giudicheremmo ben più miseri.

In queste due storie ho visto un contrasto stridente. La stessa nazione vorrebbe elevare tutti ai più alti livelli intellettuali, e contemporaneamente insegna che nemmeno i migliori possono rilassarsi e vivere di rendita. È necessaria una dose da cavallo di equilibrio interiore, per vivere in una società come quella. In Italia, quanti studiano senza speranze di usare il titolo di studio come ascensore sociale ed economico? 

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